Piazza Larderia...amarcord - di Massimiliano Chiello

Piazza Larderia...amarcord - di Massimiliano Chiello

attualita
Typography

Ogni volta che terminava la funzione religiosa, che fosse una messa domenicale o un funerale, non facevamo poi troppe distinzioni, noi, chierichetti del Sepolcro, ci toglievamo le tunichette bianche ornate di rosso per dare dei calci al nostro super santos. E cosi, alla chetichella, correvamo verso il nostro campo di gioco, che non era affatto un rettangolo verde ma un modesto spazio dalla forma irregolare, piazza Larderia, unica area non transitata dai veicoli non distante dalla nostra parrocchia.

Certo, non si poteva definire il terreno ideale per una partita di calcio, dovendo rincorrere il pallone su di un manto acciottolato dalle pendenze irregolari che riservava alla nostra sfera arancione traiettorie imprevedibili e mai uguali; un muro e una saracinesca, l’una trasversale all’altra, le due porte dai contorni indefiniti da violare per marcare il punto.

Eppure, le prime volte, quel gioco innocente non veniva vissuto in modo sereno, circondati sempre da un inquietante silenzio, immersi in un atmosfera quasi irreale, a certificare un’aura di sacralità che promanava dalla presenza ingombrante dell’antico palazzo che da il nome alla piazza, il cui prospetto ci appariva sobrio e sgraziato allo stesso tempo; e il sapere che dietro le sue mura si raccoglieva la vita ritirata di alcune suore votate a Dio, conferiva alla struttura un aspetto ancora più severo, eppure seducente.

Non so se fosse stato più il desiderio ludico o la malìa del luogo a spingerci sempre là. Inoltre, guardinghi, ci voltavamo spesso verso la cancellata in ferro, d’ingresso al palazzo, nel timore che qualche suora potesse uscire all’improvviso per rimproverarci o, peggio ancora, come era costume in altre viuzze, per minacciarci di tagliare la palla se ne fosse venuta in possesso.

Le nostre preoccupazioni si rivelarono infondate; lo capimmo presto, quando una di loro si accostò a noi e, con gentilezza, ci chiese semplicemente di attenuare il volume delle nostre voci esuberanti per rispettare la loro quiete. “Come si fa a non esultare per un gol fatto?”, ci chiedemmo, ma aderimmo senza porci ulteriori domande; anzi, di più, scartammo la saracinesca dal nostro campo, il cui rimbombo prodotto dall’impatto col pallone era assimilabile allo scoppio di grossi petardi, e utilizzammo il solo muro, già prescelto, come unica porta.

Nel tempo, si instaurò una innocua complicità con le suore, fatta di sguardi e scambi di sorrisi, fino a che ci ospitarono nella loro dimora, regalandoci il piacere di ammirare le bellezze architettoniche degli interni, imbevute di misticità. In breve, ci considerammo con orgoglio i custodi della piazza e, in qualche modo, dei privilegiati perché riuscivamo a coglierne, fin quasi a respirarlo, il suo segreto fascino.

Erano i primi anni ottanta.

Non sono più tornato in quel luogo per molti anni, un po’ perché vivo da un’altra parte e non mi capita spesso di trovarmi a Bagheria, un pò perché ho preferito affidare alla mia memoria il compito di richiamare quei nostalgici ricordi di gioventù, in modo che nulla mi possa sembrar mutare.

Nella tarda serata del Giovedì Santo, al termine di un incontro tra vecchi amici, ho deciso di approfittare degli eventi pasquali per fare visita alla chiesa della mia infanzia. Al termine, guadagnata l’uscita, la mia attenzione veniva richiamata da un vocio indistinto che proveniva dalla vicina piazza Larderia; ne ho subito immaginato la causa, dato che mi era giunta notizia che quello spazio, da molti prima considerato un angolo morto della città, da qualche tempo stava godendo di rinnovato vigore grazie al vivace entusiasmo dei giovani frequentatori di un locale di ristorazione, che proprio lì aveva aperto i battenti.alt

Mi sono avvicinato, quasi furtivamente, per non invadere con la mia presenza quella scanzonata atmosfera di festa: due botti di vino, in posizione verticale, si ergevano in bella mostra di fronte il locale reggendo i bicchieri di birra semivuoti di una quindicina di giovani accalcati attorno, pervasi da uno stato di euforia generale che accompagnavano con esclamazioni volgari e risate sguaiate.

Poco più in là, accovacciati a terra, con la schiena sostenuta dalla cancellata del palazzo, altri erano intenti in chiacchere tra un sorso di birra e una sigaretta, mentre una coppia di tanto in tanto si scambiava malcelate effusioni, lei con indosso una minigonna succinta, tirata in su per la postura rannicchiata.

Sotto la struttura precaria, una veranda allestita nello spazio esterno antistante il locale, un uomo più avanti negli anni, l’unico di mezz’età in quel momento presente oltre me, sedeva da solo davanti un tavolino sopra il quale campeggiava solitaria una bevanda alcolica, con lo sguardo completamente assente a fissare il vuoto davanti a sé e una sigaretta, consumata e spenta, stretta tra le labbra.

Il mio pensiero è andato a quelle monache, così gentili con noi, e mi chiedevo, se ne fosse rimasta qualcuna, se anche loro fossero state testimoni di quella trasformazione e con quale animo. L’unica risposta alle mie domande, forse, era data dalla presenza di un sistema di telecamere a circuito chiuso lungo il perimetro del palazzo, triste accettazione da parte di chi, prima di me, aveva dovuto ammettere che i tempi erano cambiati.

L’orologio segnava le due meno un quarto del mattino, era ora di tornare dalla mia famiglia; così, mentre osservavo una addetta del locale imbracciare una ramazza e spazzare le cunette dei marciapiedi da cumuli di bicchieri di plastica e bottiglie di vetro, alcune in frantumi, indice di una serata che nelle ore precedenti doveva avere registrato un’affluenza più consistente, mi sono allontanato lentamente da quella linfa vitale.

Apprezzo l’idea di ritornare a fruire degli spazi storici, di riproporli come centri di aggregazione sociale, purché ciò avvenga senza stravolgerne l’identità, nel rispetto del decoro e della gente che ci vive. Il nostro patrimonio culturale merita di essere vissuto, pena la sua sterilità; tuttavia, quello che avevo visto non mi era piaciuto.

Rassegnato, sulla strada per casa, quasi a voler preservare la magia di un passato ormai dissolto, ho richiamato alla mente un episodio buffo: quello di un’anziana signora che, una volta, nel suo incedere ricurva, si paralizzò attonita nel sorprendere il nostro parroco a giocare insieme a noi ed esultare per un gol realizzato; il tutto, ad eccezione del rotolio della palla, nel più rigoroso e surreale silenzio.

Massimiliano Chiello
 

We use cookies

Utilizziamo i cookie sul nostro sito Web. Alcuni di essi sono essenziali per il funzionamento del sito, mentre altri ci aiutano a migliorare questo sito e l'esperienza dell'utente (cookie di tracciamento). Puoi decidere tu stesso se consentire o meno i cookie. Ti preghiamo di notare che se li rifiuti, potresti non essere in grado di utilizzare tutte le funzionalità del sito.