Gregge senza redenzione- di Maurizio Padovano

Gregge senza redenzione- di Maurizio Padovano

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Sabato sera, ore 22,30 circa. Una affollata via del centro città, piena di attività commerciali importanti, prestigiose scuole, alveari condominiali da hinterland più che da downtown.

Procedo in auto a passo d’uomo per non impattare con la selva di motociclette che mi sciama attorno: nugoli di pedoni adolescenti, eccitati dalla loro provincialissima saturday’s night fever, invadono la carreggiata scomposti, non tenendo affatto conto del traffico veicolare e facendo temere a ogni scarto laterale del loro incedere, a ogni zompo gaudioso ma privo di misura, l’impatto ferale che rovinerebbe la vita a me e a loro. Accosto e provo a contarli: dopo 120 ragazzini smetto. Sono troppi e tutti rigorosamente non indossano la mascherina. Guardandoli, ho l’impressione di essere in una realtà parallela rispetto a quella percepita attraverso i media e l’informazione. E ripenso a ciò che sono stati, nella seconda metà della settimana, i miei primi tre giorni di lavoro in classe: di mestiere faccio l’insegnante e, come per tanti miei colleghi, questo ricominciare ( mai così provvisorio e sospeso ) è stato progettato all’insegna di un dialogo informativo ed educativo che porti a riflettere su quanto da mesi ha sconvolto la vita di noi tutti; su quel principio di responsabilità che dovrebbe indurci con sicurezza verso certi comportamenti, certe pratiche. Le prime tre giornate di lavoro, di rinnovato contatto in presenza, con tutte le cautele imposte ed accettate, mi sembra stiano già svanendo nell’aria come le emissioni nocive di anidride carbonica: rimarranno invisibili ma faranno male comunque, anche soltanto dimostrandoci - come ce ne fosse bisogno ulteriore - la difficoltà a parlare al cuore e alla mente dei giovani. 

Riconosco tra la folla, intenta a un baccanale on the road, giovani con i quali fino a febbraio scorso ho condiviso l’aula scolastica, ogni giorno: e ho la certezza, a questo punto, che il mio parlare, da tre giorni a questa parte, è stato probabilmente un ululare alla luna, un esercizio di retorica fine a se stesso. “Non ce n’è Coviddi”, tormentone molesto dell’agosto scorso, ha avuto effetti più profondi e convincenti dei miei sermoncini. Mi chiedo dove siano adesso, alle 22,30, le migliaia di genitori di quei ragazzini, gli stessi che hanno firmato in questi giorni, nelle diverse scuole della città, il patto di corresponsabilità educativa. E almeno una cosa mi risulta finalmente chiara, nonostante tutto: l’educazione riguarda la città intera, nessuno escluso. E la città, in tutte le sue componenti, non mi pare, in questo straniante sabato sera, all’altezza delle proprie responsabilità. La scuola è soltanto un segmento, importante sì e poco efficace se non integrato con il resto, del processo educativo: e quei giovani sono figli della città tutta. Nel bene e nel male.

Ore 13,00 della medesima giornata: come molti ascolto il sindaco che da Facebook - incalzato dalle mille voci che in città si rincorrono sui numeri relativi alla reale diffusione del problema - fa il punto della situazione sul contagio da covid 19 in città. Ne sortiscono una informazione numerica sui contagi che molto ridimensiona i boatos in circolo; generici ma sacrosanti inviti alla prudenza e alla moderazione; una preoccupazione forse più sbilanciata verso la salubrità delle attività commerciali che la sicurezza dei cittadini (ed è comprensibile: tutti sappiamo che un altro lockdown non lo si reggerebbe - nemmeno con la strategia delle zone rosse limitate); un istituzionale rimbrotto, ma nemmeno troppo perentorio, sul rispetto inderogabile delle regole minime anti-contagio. I cittadini - giovani e adulti, padri e figli - hanno apprezzato? Hanno compreso?

La sera, per strada, davanti allo spettacolo della imbarazzante assenza di rispetto per tutte le regole sul distanziamento sociale e sulla cautela nella misura dei contatti, ho la certezza che la città non ha ascoltato il suo primo cittadino: o forse, chissà, ha colto nel suo discorso un senso più profondo che a me è sfuggito. La media di dieci morti al giorno che ha scandito le giornate di agosto e di questo inizio di settembre (e in fondo sono trecento morti al mese…) , quei mille contagi e più al giorno che si registrano nel Paese, i numeri che in Sicilia e nella provincia di Palermo crescono come non è stato a marzo e ad aprile scorsi - sembrano non spaventare nessuno. Non posso non pensare che il virus - questa invenzione da laboratorio di un dottor Stranamore 2.0, secondo negazionisti e freaks di varia foggia - abbia trovato nei giovani che incontro degli ospiti perfetti: alimento e vettori ideali per l’incubo da cui usciremo a fatica. Solo che nei locali, nei pub, questo sabato sera ci sono anche molti adulti, il cui comportamento a fatica si distingue da quello dei giovani.

È quasi mezzanotte, prima di rientrare a casa faccio un ultimo giro per cercare di scorgere, in questa dissennata baraonda, mio figlio sedicenne - che esce da casa con la mascherina e mi assicura di farne uso adeguato (cosa alla quale, ovviamente, faccio fatica a credere). Rientro paradossalmente contento di non averlo incontrato. Quanto meno la mia malevola e generazionale diffidenza godrà ancora del beneficio del dubbio. Di certezza mi basta quella che, se si continua, così, ci sarà una generazione di italiani che si porterà un buco di due anni nella propria formazione scolastica, anziché di pochi mesi ( quello della avventurosa didattica a distanza). Mi piacerebbe, lunedì, poter illustrare ai miei alunni il mio stato d’animo rispetto allo spettacolo in corso: e magari parlargli del secondo libro del De rerum natura di Lucrezio, e della fortunata metafora del naufragio con spettatore. Con la certezza però che, io e molti miei colleghi, non ci sentiamo scampati, per sommo di fortuna, a una tempesta: vediamo venirci incontro uno tsunami smisurato e sappiamo di non avere vie di fuga. Chissà se avrò il tempo di farla questa lezione. Di farla in presenza, intendo.

 Maurizio Padovano
20 settembre 2020

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