Cultura

Con apposita delibera di giunta approvata in data 21.09.2012 viene conferito alla ceramica artistica di Casteldaccia la Denominazione Comunale di Origine (DE.C.O.).

La DE.C.O. e'' una sorta di carta d'identita' di un prodotto che ne definisce le caratteristiche a futura memoria.Si tratta di prodotti che vengono universalmente riconosciuti come vere e proprie eccellenze produttive che caratterizzano una data comunita'.
La ceramica artistica di Casteldaccia negli anni si e' andata sviluppando ben inserita in quella che e' la straordinaria tradizione della Sicilia. Sciacca, Burgio, Santo Stefano di Camastra e Caltagirone sono sicuramente le punte avanzate di questa tradizione che ha inizio addirittura nel VI millennio avanti Cristo e che nel V secolo a.c. Sempre in Sicilia (Magna Grecia) ,in corrispondenza dell'affer-mazione politica e culturale di Atene .raggiunge vertici artistici elevatissimi.
La ceramica di Casteldaccia ha i titoli per potersi confrontare senza complessi con gli altri produt-tori siciliani e' appare come un'eccellenza da promuovere e tutelare.Il disciplinare di produzione che e' un passaggio fondamentale nella definizione di una DE.C.O. testimonia la serieta' e la particolare dedizione che i ceramisti di Casteldaccia profondono nelle loro produzioni.Una tradizione giovane ma gia' ricca di riconoscimenti.

Le ceramiche Cassenti premiano i partecipanti alla X edizione del premio nazionale di poesia Elvezio Petix, riscuotendo generale apprezzamenti.

L'anno successivo tocca alle ceramiche “Il Duca” analogo compito,mentre il “ 3° Premio internazionale Orgoglio sici-liano” di Campofelice di Roccella commissiona a Keramosfea la produzione dei relativi premi.
I nostri ceramisti riempiono di colori e di eleganza le stanze della Torre Duca Di Salaparuta quando questa finalmente restaurata apre le porte a migliaia di Casteldaccesi che commossi possono finalmente visitare le stanze della storica sede della famiglia Alliata.
Infine la riqualificazione del centro storico da circa un mese gia' in atto nel nostro paese. si avvarra' dell'opera dei principali ceramisti di Casteldaccia , che hanno ricevuto il compito di decorare con la loro arte scalinate e fontane.
La DE.C.O. per la Ceramica giunge ad un anno di distanza dal conferimento della denominazione Comunale al Buccellato di Casteldaccia ,dolce tipico della tradizione locale. L'amministrazione comunale si propone nel medio periodo di arrivare alla definizione di un paniere di prodotti DE.-C.O. Che definiscano la genialita' e la vitalita' del nostro artigianato.

 

Vincenzo Accurso
Ass. Attività Produttive, comune di Casteldaccia
 

 

Ieri mattina oltre a congratularci con il professore Franco Lo Piparo per il prestigioso riconoscimento ottenuto, abbiamo voluto fargli qualche domanda sul suo saggio.

 

Cosa si prova ad avere assegnato un Premio così prestigioso come il Viareggio?

Confusione e disorientamento. Non faceva parte delle mie ambizioni. La vita è imprevedibile. Questo piccolo libro è andato in libreria gli ultimi giorni di gennaio e da allora ha suscitato sui giornali molte discussioni e molte critiche. Ne hanno scritto tanto i giornali nazionali, e persino l’Osservatore Romano gli ha dedicato una intera pagina. 

Tra l'altro questo riconocimento segue a distanza di quaranta anni il premio Viareggio di poesia assegnato ad Ignazio Buttitta.

E per completare il quadro va anche detto che a Dacia Maraini, che pur non bagherese dal punto di vista anagrafico, sul nostro paese ha scritto tanto ed ha nutrito un particolare rapporto, è stato assegnato quest'anno  il premio Viareggio-Rèpaci alla carriera

Come spieghi questo successo?

Il merito è anzitutto di Gramsci. Sono passati più di vent’anni dal collasso inglorioso dei paesi comunisti, eppure il pensiero e l’avventura umana e politica di Antonio Gramsci, entrato in carcere come segretario del Partito Comunista d’Italia, continua a essere fonte di suggerimenti utili a capire il mondo post-capitalista e post-comunista in cui viviamo.
I due carceri di Gramsci ha suscitato interesse forse perché ha messo in luce questi aspetti radicalmente innovativi della riflessione gramsciana.

Ci puoi spiegare meglio?

Gramsci in carcere è un uomo in crisi. Sa che la generosa utopia comunista della liberazione dell’uomo si era trasformata in una delle più crudeli dittature.

Da quel grande intellettuale quale era non si accontenta di individuarne la causa nella cattiva politica di Stalin ma si interroga sulle ragioni, culturali e filosofiche, di tale esito.

I Quaderni sono, più che un classico del comunismo, il diario intellettuale di un travagliato e incompiuto ripensamento critico di alcuni dei fondamentali pilastri della cultura comunista novecentesca.

Tutto questo ha avuto dei risvolti umani dolorosissimi. Nei terribili anni Trenta non c’era spazio per un comunismo non stalinista: o si era comunisti e stalinisti o si fuoriusciva dal comunismo. E la fuoriuscita dal comunismo era considerata un tradimento che si pagava con la morte e/o il discredito personale.

Gramsci aveva moglie e figli in Unione Sovietica e sapeva bene che una chiara manifestazione di dissenso avrebbe comportato seri rischi per loro. Ciò lo rendeva prudente e attento alle parole che usava.

Tu sostieni che il lascito culturale di Gramsci sia stato manipolato e che addirittura potrebbe mancare uno dei suoi ultimi Quaderni. Puoi dirci qualcosa?

È un aspetto del libro che ha fatto molto discutere. Ho continuato a lavorarci tutta l’estate e adesso sono ancora più convinto che sia stato fatto scomparire uno dei Quaderni. Nonostante le critiche un risultato l’ho ottenuto.

In un articolo sul «Corriere della Sera» (6 giugno) ho fatto notare la presenza di una mano estranea sulla copertina di un quaderno e ho chiesto a Giuseppe Vacca, Presidente della Fondazione Gramsci, di nominare una commissione per esaminare la questione direttamente sui manoscritti originali e senza pregiudizi ideologici.

La commissione è stata nominata immediatamente, ne faccio parte anch’io, abbiamo già fatta una riunione metodologica a luglio, alla fine di questo mese dedicheremo un’intera giornata all’esame dei manoscritti.

Il libro è stato aprezzato anche per la sua scrittura chiara e per il suo andamento quasi da libro giallo. Ha perfino una conclusione imprevedibile. Cito: «i Quaderni esistono grazie a Mussolini e a Togliatti». Addirittura Mussolini. Puoi spiegarci questo aspetto intrigante?

Mussolini sapeva che Gramsci era un comunista dissidente. In un articolo del dicembre 1937 ne scrive in questi termini: «è morto di malattia, non di piombo, come succede ai generali, ai diplomatici, ai gerarchi comunisti in Russia, quando dissentono – anche un poco – da Stalin e come sarebbe accaduto a Gramsci stesso se fosse andato a Mosca».

Forse anche in ragione di questo, in carcere gli concede privilegi che gli altri detenuti politici non avevano: ha una cella tutta per sé, dispone di quaderni e penna, riceve libri e riviste che il suo amico Sraffa gli faceva avere tramite una libreria di Milano.

Tenendo conto di quello che accadeva in quegli anni in URSS e di quanto ebbe a dichiarare Togliatti poco prima di morire (Gramsci, al mio posto si sarebbe fatto uccidere) azzardo nel libro questa conclusione: «La mente di Gramsci nel carcere fascista trovò, nell'Europa continentale degli anni trenta, l'unico luogo in cui potesse lavorare».

 

Con il libro 'I due carceri' di Antonio Gramsci, editore Donzelli, Francesco Lo Piparo, bagherese, ordinario di Filosofia del linguaggio dal 1980 presso l'Università di Palermo,  è stato votato dalla giuria  vincitore del premio letterario "Viareggio-Rèpaci" per la saggistica.

La cerimonia di premiazione è avvenuta ieri sera presso il Centro Congressi "Principe di Piemonte" a Viareggio.

"Sono confuso e felice: le stessi sensazioni che ho avuto dopo aver appreso lo scorso luglio la notizia che il mio lavoro era stato selezionato tra i finalisti del premio; naturalmente il riconoscimento di oggi è ancora più gratificante", è la dichiarazione che ci ha rilasciato stamattina.

Il professore Lo Piparo lungo la sua carriera accademica ha approfondito gli studi sui dialetti ed ha concorso assieme al professor Tullio De Mauro alla redazione di un lavoro enciclopedico sul dialetto siciliano.

Nel libro "I due carceri" viene ricostruito il pensiero di Antonio Gramsci ristretto tra il carcere fascista e "il carcere" ideologico in cui era stato ingabbiato dai dirigenti dell'allora partito comunista clandestino.

Esattamnete quaranta anni fa, nel 1972, un altro bagherese illustre aveva vinto il premio Viareggio per la poesia "Io faccio il poeta"; si chiamava Ignazio Buttitta; come pure nel 1957 un altro libro ispirato a Gramsci "Le ceneri di Gramsci" di Pier Paolo Pasolini era risultato vincitore

 

Nell’aprile del 1852 nasce un comitato, presieduto dal sindaco don Luigi Castronovo, il cui progetto è dar vita ad una banda musicale. Messo a conoscenza dell’iniziativa, il cav. Salvatore Maniscalco, approvandola incondizionatamente, scrive: “Orfeo colla musica ingentilì gli animi feroci degli uomini primitivi. Possa la banda musicale che va a comporsi a Bagheria produrre un simile prodigio fra quella rea gente”. (1)

In effetti, nel versante dei misfatti, s’ebbe a Bagheria, per qualche anno, una certa schiarita; non certo però per effetto della musica, come il capo della polizia borbonica si era augurato. A fine maggio l’assenteista Emanuele Cicala era stato finalmente sostituito e Giuseppe Scordato, pochi  mesi dopo, come già sappiamo, aveva perduto il suo potere.

Ecco il giudizio che di quest’ultimo dà Nicola Previteri: “Lui, l’incontrastato capo della banda, che fece un boccone del presidio militare borbonico di Bagheria, non poteva non costituire il punto di arrivo e di partenza di ogni atto delittuoso; lui, il capo dello squadrone campestre prima e della compagnia d’armi dopo, non poteva non conoscere i “tristi” uno ad uno ed ignorarne i “pravi” disegni. Con quel passato e con quel “pitigrì” familiare Giuseppe Scordato invece, di ogni violenza praticata nel territorio di Bagheria conosceva anche le più sottili radici”. (2) E ancora: “…I documenti rappresentano Bagheria dominata da questa figura dispotica a cui, oggi, non è difficile attribuire la fisionomia del mafioso. (3)

Che la diminuzione degli atti delittuosi fosse dovuta ad un miglioramento nell’amministrazione della giustizia e nella difesa della legge e non, invece, all’ingentilirsi degli animi bagheresi dovuto alla musica, è provato dal fatto che, semplicemente, di banda musicale non se ne parlò fino al luglio del 1857. A suo tempo, infatti, le autorità palermitane non autorizzarono la spesa per gli strumenti musicali e solo cinque anni dopo, col nuovo sindaco, don Francesco Farina, un nuovo comitato, la contribuzione volontaria ( questa sì approvata a Palermo ) dei trentasei elementi della banda per l’acquisto degli strumenti, solo allora Bagheria ebbe quella banda. Il primo concerto, dato in abiti borghesi ( occorrevano sessanta ducati per le divise e non c’erano ), nel parterre del municipio, l’ultimo di luglio compleanno di S.M. la Regina, ebbe grande successo. Con i problemi riguardanti la mancanza di una divisa che si trascinarono per molti mesi, quella banda non ebbe comunque vita lunga. Richiesta la sua presenza al campo di Gibilrossa da Giuseppe La Masa, a quest’ultimo il Comitato rispose: “…Poiché alcuni musicanti trovansi ammalati ed alcuni  allontanati dal paese,…il numero per la musica non trovasi completo e capace di poter suonare”.(4) 

Quella risposta nascondeva però le gravi tensioni politiche di quel momento; siamo infatti nelmaggio (è il 24) del 1860 con Garibaldi già sbarcato nell’isola e in procinto di attaccare Palermo. L’anno prima però…

alt1859.

Il 9 di ottobre doveva verificarsi una insurrezione antiborbonica. Ecco come: “All’alba di quel giorno, una squadra, dopo avere inalberato a Bagheria la bandiera tricolore, e disarmato la poca forza pubblica, raccogliendo via via altri uomini armati a Misilmeri e a Villabate, sarebbe scesa a Palermo; ed allora, al rumore di alcune fucilate verso la porta di Sant’Antonino, i cospiratori della città sarebbero corsi alle armi, e con l’aiuto delle bombe e delle squadre avrebbero attaccato la truppa, e la rivoluzione si sarebbe compiuta”. (5)

Si tornava cioè “ad un vecchio progetto, quello di sollevare le campagne vicine e di piombarein città…le squadre sarebbero discese in 4 colonne, poggiantesi l’una sull’altra, 100 uomini ciascuna…giunte le bande armate si sarebbero unite al ponte dell’Ammiraglio in una sola colonna…”. (6)

Ma le cose non furono così semplici. La sera dell’8 di ottobre, vigilia della rivolta, a Bagheria, invece dei 100 uomini che dovevano raccogliersi, se ne riunirono tanti quanti se ne potevano  contare con le dita di una mano. Si rimandò allora l’insurrezione alla notte tra il 10 e l’11. Pare che il luogo d’incontro dei cospiratori si trovasse in una casa sulla litoranea, nei pressi di capo Zafferano. Stavolta, cioè la sera del 10, gli uomini erano una trentina; si divisero in due  gruppi partendo, uno alla volta di Aspra, l’altro alla volta di Porticello e Santa Flavia; là dovevano procurarsi armi e munizioni attaccando, ad Aspra l’antro doganale, a Porticello e Santa Flavia la Guardia Urbana. Fu quanto avvenne e i due gruppi, ancora una volta, si riunirono a capo Zafferano per raggiungere, insieme, Palermo. Ma una spia informò il cav. Maniscalco che inviò alla ricerca dei rivoltosi diciotto compagni d’armi, dodici gendarmi, trentadue guardie di polizia.

Con soli sessantadue uomini, senza alcun impegno militare, l’insurrezione fu fermata a Villabate dove i rivoltosi furono costretti a disperdersi, “lasciando sul campo un ferito, Antonino Billitteri, morto il giorno successivo”. (7)

Sappiamo chi fosse quella spia? In una lettera di Rosolino Pilo del 10 novembre 1859 all’amico Salvatore Calvino leggiamo: “L’11 ottobre, dietro denunzia del fratello di Scordato, il famoso ladro, la polizia cercò di disarmare i campagnuoli della Bagheria, Santa Flavia, Ficarazzi etc.ed una specie di insurrezione ha avuto luogo”. (8)

Il delatore era Baldassarre Scordato, il fratello minore di Giuseppe, costui essendo il “famoso ladro”? Il Pilo si riferiva a Giovan Battista Scordato, confondendolo con Baldassarre, non sapendo che era già morto da parecchi anni? Si riferiva, semplicemente, a Giuseppe? La confusione tra i  fratelli Scordato è cosa sia recente che antica. Oreste Girgenti, ad esempio, confonde Baldassarre 

con Giovan Battista quando, sul ’48, scrive: “Sanguinose battaglie .. si erano svolte nel fondo Accia Petrusa ove era rimasto ferito Giov. Battista Scordato”. (9) Ma la confusione antica è davvero curiosa. In Simoncini Scaglione, sempre a proposito del ’48, leggiamo: “…e, dalla Bagheria, scendeva Giuseppe Scordato, fratello di GiovanBattista che, sebbene morto, pur la voce popolare favoleggiava ancor vivo e celato per rivelarsi in tempo opportuno. Ora Giuseppe fu creduto GiovanBattista, e così dalla favola la rivoluzione acquistava maggior vigore”. (10)

La spia fu dunque uno Scordato e, poiché i morti non risuscitano, sarà stato Baldassarre? Giuseppe uscito di prigione? Ma chi erano i capi di quella insurrezione improvvisata e non riuscita? Scrive Nino Morreale: “ Che ci fossero gli animi disposti a rapidi sommovimenti è cosa certa. Il 12 ottobre 1859 Castelcicala al Ministro Segretario di Stato per gli affari di Sicilia scrive: “In Bagheria, paese abitato da gente ribalda che in tutti i tempi ha apprestato a Palermo il miglior nerbo degli uomini d’azione, un tal Giuseppe Mastricchi ( Campo ), veduto mancare il colpo preparato per il mattino del 9, pensò di concitare gli animi di circa una cinquantina di abitanti di quella terra, dicendo loro che se fossero animosi a lanciarsi sopra Palermo, la rivoluzione si sarebbe di un subito compita avvegnachè nelle condizioni presenti nelle quali trovasi la Sicilia, egli diceva, bastava una scintilla per far divampare un grande incendio” (11) 

Ecco dunque uno dei cospiratori: Giuseppe Mastricchi ( Campo ). Ma, un uomo con questo nome (l’errore era nel Castelcicala?), in realtà, non esisteva trattandosi invece, secondo Nicola Previteri, di Giovanni Mastricchi, (12) fratello di Pasquale, più grande d’età quest’ultimo, che, insieme a Giuseppe La Masa e a Vincenzo Fuxa, sarebbe accorso al campo di Gibilrossa, combattendo poi la battaglia del ponte dell’Ammiraglio. Anche Pasquale Mastricchi, con proprietà ed una abitazione a Bagheria, era uno dei rivoltosi dell’ottobre 1859; ad organizzare ( male ) quella insurrezione erano stati però Giuseppe Campo, palermitano con proprietà a Bagheria, e Francesco Gandolfo, suo castaldo. Antiborbonici di lungo corso, i quattro si erano già distinti in molte imprese della rivoluzione del ’48, (13) e dopo, nel decennio successivo, avevano avuto più di un contatto con cospiratori meno fortunati come Nicolò Garzilli, Francesco Bentivegna, Salvatore Spinuzza.(14)

Pare che Francesco Gandolfo avesse una proprietà nei pressi di capo Zafferano, alla Vignazza; è perciò probabile che i rivoluzionari si fossero riuniti lì prima di recarsi lungo la costa da un lato e dall’altro ad assaltare i paesetti dove la litoranea iniziava. Nel fare questo uccisero due uomini. Pare che uno si fosse rifiutato di seguirli, mentre l’altro non volle consegnare il fucile in dotazione. Quest’ultimo si chiamava Giuseppe Scordato, cugino forse dello Scordato ben più  famoso e col quale venne confuso da Denis Mack Smith. (15) Scrive Nicola Previteri: “…Due vittime, quindi, di cui quel primo vagito rivoluzionario avrebbe potuto fare a meno”. (16)

alt1860

Un altro misfatto della rivoluzione è raccontato da un testimone di fede borbonica. Bisogna credergli? Leggiamo: “ 5 aprile. Due compagnie del 4° di linea a Bagheria aggredite da forze maggiori dei rivoltosi si ritirano nella casina Inguaggiato, dove, sebbene senza provvisioni, si sostengono valorosamente. Venerdì 6 aprile. Per liberare le surriferite due compagnie assediate in Bagheria, interamente digiune da due giorni, vi accorre oggi alle due pomeridiane il generale Sury con quattro compagnie del 4° di linea, e due del decimo, con mezza batteria a trascino n. 10, e con mezzo squadrone cacciatori a cavallo; …i cronisti favorevoli alla rivoluzione…riportano come un tratto spiritoso e faceto un atroce incidente: all’avvicinarsi delle truppe di Sury, gli insorti di Bagheria mettono ligata in piazza una guardia di polizia, che già ritenevano prigione, e la costringono a starsene ivi ferma col vessillo tricolore inalberato fra le mani: così rimane bersaglio ai colpi involontari delle dette truppe, che nell’impeto dell’assalto credono quello infelice uno dei rivoltosi”. (17) 

A parte le date ( la casina Inguaggiato subirà, fino all’otto aprile, un assedio di tre giorni ), i soldati borbonici erano veramente, e ovviamente, alla fame. Infatti, il mattino del sei aprile, come scrive Nicola Previteri “supponendo che la notte avesse calmato i furori popolari, gli addetti militari al vettovagliamento di palazzo Inguaggiato, come d’abitudine, uscirono per le spese, ma, a piazza Madrice, uomini in armi li costrinsero a riparare immediatamente nella casina”. (18) E scrive ancora: “…Dopo due giorni ( il sette e l’otto aprile ) di assedio, tra i soldati si diffuse la fame. Per sedarla tornarono utili prima due caprette colte a pascolare nel recinto retrostante la casina e poi il cavallo di un compagno d’arme postosi sotto tutela militare”. (19)

L’arrivo del Surry con i suoi duemila uomini risolse naturalmente ogni problema disperdendo i rivoltosi nelle campagne. Nell’operazione repressiva del generale borbonico, “rientra anche l’episodio, il più significativo per autentico spirito patriottico accaduto a Bagheria nella rivolu- zione del ’60, che portò Andrea Coffaro e il di lui figlio Giuseppe al sacrificio supremo della vita”. (20) 

Così Nicola Previteri ma, ovviamente, Nino Morreale non può non dare un giudizio differente, quando commenta “l’episodio, difficilmente decifrabile, che vide coinvolti Andrea e Giuseppe Coffaro, padre e figlio. Questi, nell’aprile del’60, improvvisarono nel contesto di scaramucce e saccheggi di cui si rese protagonista una colonna borbonica, una resistenza che finì tragicamente con la morte di Giuseppe e l’arresto e la condanna a morte di Andrea. Come si può interpretare questo episodio al di fuori di ogni retorica risorgimentale e in assenza di altri apporti documentari? Quel che sappiamo è che i Coffaro sono una famiglia di “castaldi”, vivaio fertile di quella borghesia mafiosa che tanta parte ha avuto nella storia del nostro territorio”. (21)

La problematicità dei comportamenti di taluni protagonisti di quegli anni viene estesa da Nino Morreale anche, ed è naturale, a Giuseppe Scordato, che dovrebbe considerarsi il  vero uomo per tutte le stagioni con, al fondo dei suoi comportamenti, la forte coerenza dell’esclu- sivo interesse personale. Scrive dunque il Morreale: “Dalle vicende risorgimentali a partire dalla rivoluzione del ’48 al 1860 molte scorie andranno eliminate, molti giudizi rettificati e non solo quelli relativi ad eroiche figure quali Miceli e Scordato che partecipano al ’48, vengono fatti colonnelli, nel ’49 tradiscono, e nel 1860 sono con Garibaldi” (22)

Sapevamo lo Scordato ospite del Castelloamare; non sappiamo quando ne sia uscito né se sia coinvolto in quella delazione sui fatti dell’ottobre 1859. All’arrivo dei Mille cambia dunque ancora  una volta casacca pur non compiendo, per quello che ne sappiamo, gli eroismi del ’48. Magari si è limitato a salvaguardare gli interessi di un qualche barone, del barone Riso, ad esempio, che aveva accompagnato nel ’49 a patteggiare con Carlo Filangeri, principe di Satriano, la resa di Palermo. 

Note.

1)Nicola Previteri, Verso l’unità, gli ultimi sindaci borbonici di Bagheria, Assessorato ai Beni Culturali del Comune di Bagheria, Bagheria 2001, p. 125.

2)Ivi, p. 41.

3)Ivi, p. 139.

4)Ivi, nota n. 179 bis, pp. 293-294.

5)Raffaele De Cesare, La fine di un regno, parte II, 1900, full text on line, p.154.

6)Giovanni Simoncini Scaglione, Dal 48 al 60, Ricordi storici, 1890, full text on line, p. 73.

7)Nicola Previteri, op. cit., p. 250.

8)Giacomo Emilio Curàtulo, Garibaldi, Vittorio Emanuele, Cavour nei fasti della patria, 1911, full text on line, p. 52.

9)Oreste Girgenti, Bagheria, Origini e sua evoluzione, Edizioni Soleus, Bagheria 1985, p. 196.

10)Giovanni Simoncini Scaglione, op. cit., p. 31.

11)Antonino Morreale, La vite e il leone, storia della Bagaria, Editrice Tiranna, Palermo 1998, p. 396.

12)Nicola Previteri, op. cit., p. 248.

13)Giovanni Simoncini Scaglione, op. cit., pp. 34-38.

14)Verranno fucilati ( come si scriveva allora “moschettati” ), in seguito al fallimento delle rivolte antiborboniche da loro organizzate, il primo, appena ventenne, nel gennaio del 1850, a Palermo, il secondo, trentaseienne, nel dicembre del 1856, a Mezzojuso ( ma era di Corleone), il terzo, ventottenne, nel marzo del 1857, a Cefalù. Salvatore Spinuzza, con Vincenzo Consolo e il suo Il sorriso dell’ignoto marinaio, diventa personaggio letterario colto in un momento di particolare fragilità: “Da porta d’Ossuna, in quel momento, s’udirono venire colpi di schioppo e abbaiar di cani. Era la ronda che di questi tempi sparava la notte a ogni ombra che vagava fuori le mura. Lo Spinuzza sentì un brivido salirgli per la schiena e si fece inquieto”. ( Mondatori, Milano 1997, p. 31 )

15)Lo storico inglese farà arrabbiare Oreste Girgenti avendo scritto come Giuseppe Scordato si  fosse arricchito svolgendo, per il governo borbonico restaurato, il compito di esattore guardacoste nel litorale Aspra-Capo Zafferano; e ciò perché nessuno dei discendenti aveva ereditato fortune. In realtà il destino di Giuseppe Scordato era quello di essere confuso con altri, ora con il fratello Giovan Battista, per quanto morto, ora con il cugino ( ? ) omonimo, questo sì guardacoste. ( Oreste Girgenti, op. cit., pp.197-198; Nicola Previteri, op. cit., pp. 36-37 e nota n. 111 p. 292 ).

16)Nicola Previteri, op. cit., p. 249.

17)Cronaca degli avvenimenti di Sicilia da 4 aprile a’ principii d’agosto 1860 con l’aggiunta dei fatti posteriori fino a marzo 1861, 1863, full text on line, pp. 13-14.

18)Nicola Previteri, op. cit., p. 271.

19)Ivi, p. 272.

20)Ibidem.

21)Antonino Morreale, op. cit., pp.396-398.

22)Ivi, pp.395-396.


Agosto 2012  Biagio Napoli
 

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