Le notti insonni di Aspra - un racconto di Gaetano Balistreri

Le notti insonni di Aspra - un racconto di Gaetano Balistreri

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Aspra, luglio, sei del pomeriggio.

Con in mano un trolley, un uomo sulla cinquantina, per riuscire a prendere l'autobus, ha dovuto accelerare il passo per un buon tratto di strada. Non più di duecento metri.
Trascorso qualche istante per riaversi dalla corsetta, s'accorge di una donna, in piedi, all'inizio del corridoio, vicino a lui; che rimane lì, nello spazio posteriore del mezzo, anche se tutti i posti sono vuoti.
C'è un incrocio di sguardi, ma nessuno dei due abbozza una qualche espressione appropriata, l'ombra di un sorriso, niente.
Non più di quarant'anni, lei.
L'autobus si ferma. Lui sente che l'autista sta dicendo qualcosa, ma non gli arriva chiaramente una sola parola; dal tono sembra un mugugno, si starà lamentando del traffico o vai a sapere di che.
La donna dà un'occhiata alla strada, sembra sgombra, ma se l'autobus si è fermato e continua a stare fermo, qualche impedimento ci sarà. Ha sentito anche lei il mugugno.

Si fa più avanti, sino alla scaletta anteriore, e si spinge per guardare dal grande parabrezza. E c'è di che disperare: a sinistra, la solita sosta selvaggia, anche in terza fila, a destra, un carrettino di frutta placidamente fermo, col fruttivendolo che continua a vendere e a riempire cartocci di uva, banane, susine... sì, l'autobus dietro di lui, vabbè, però lui sta lavorando, quelle auto che ci stanno a fare lì? Cominciano a farsi sentire i clacson, di là qualcuno che grida, che impreca, volano parole pesanti... di là, di qua, dietro, davanti, un casino con precedenti, ma sempre ad Aspra, e l'autista conferma: "Sono vent'anni che vengo in questo paese. Questo lungomare, d'estate, è sempre così, e sono sicuro che fra cent'anni sarà così. Non c' è niente da fare. Altro che Plutone, potremo arrivare a fare le foto a Dio mentre si fa le unghie, e qui, niente, sempre lo stesso bordello. Mi scusi, signora, m'è scappato. Ecco ora ci volevano pure i pugni. Questo paese è diventato il capolinea di tutti gli stronzi. Mi scusi, signora, m'è scappato -.

Nel frattempo si è avvicinato anche lui. -

E lei cerchi di non farselo scappare ancora – ribatte la donna. - Di persone per bene, qui ce ne sono, ne ho conosciute. E questo è triste, perché queste persone... -. L'autista la interrompe: - Vedo che lei non è di qui.
Vediamo se indovino: francese? -. - No -. - La erre mi è sembrata … -. - No, ha sbagliato, non sono francese -. - Ora la erre era buona. Oh, meno male, i vigili! Siamo stati fortunati -. Dopo un paio di minuti, l'autobus procede. Lei torna dov'era, e anche lui; che, ora, fa caso ad una valigia sui sedili vicini a lei.

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altFa molto caldo, si suda. 

Lui: - È in partenza anche lei?

Lei: - Sì.
Non che s'aspettasse più di tanto, ma un sì così gelido con un punto più definitivo di un loculo, no, questo no. Con quella domanda avrà pensato al solito tentativo di avvicinamento. È una bella donna, non ci sono dubbi, ma lui, in questo momento, è a distanze siderali da certi richiami. Se Ulisse si fosse trovato nel suo stesso stato d'animo di ora, tra l'avvilito, il disorientato e l'incazzato, non si sarebbe fatto legare all'albero, avrebbe ascoltato impassibile il canto delle sirene, e, forse, le avrebbe trovate anche stonate.
- Se vi dà fastidio ditemelo, così spengo –, annuncia l'autista. E via con una canzone napoletana.
- Sì, dà fastidio -, risponde lui, secco.
- Come non detto -. L'autista spegne. - Però lei non è gentile -, aggiunge. E questo lui non se l'aspettava. Ma non gli frega più di tanto: - No, non sono gentile - .
- Finisce qui o ci sarà un seguito ? -, gli chiede lei a voce bassa.
- Come sta?
- Che c'entra questa domanda?
- Sta bene? Ha detto una frase molto lunga, non si sarà stancata?
- Ho capito, lei vuol litigare con qualcuno, ma io voglio essere lasciata in pace -. Si siede. Cosa che fa anche lui; ma più che sedersi, lui s'accascia. “... voglio essere lasciata in pace “ gli è rimasta nelle orecchie. Ha avvertito sfinitezza nell'intonazione.
Dovesse ubbidire all' effetto mossogli da questa frase, lui ora si rannicchierebbe nel proprio posto, tutto chiuso in sé a pensare e ripensare all'uomo che crede di essere diventato da un po' di tempo: un inaffidabile, un incapace eccessivo nelle reazioni, un balordo.
L'autobus sta percorrendo il corso Baldassare Scaduto, il cosiddetto rettifilo, tra qualche minuto sarà a Bagheria.
Si alza, si presenta a lei con un sorriso stentato. Teme di essere subito allontanato, di non avere il tempo di parlare, parla: - Mi scusi per poco fa -. Il sorriso è sempre quello. Dovrebbe dire qualcos'altro, lo vorrebbe, lei gliene sta dando il tempo, ma non sa come continuare e allarga il sorriso. Ripete: - Mi scusi -. E torna a sedersi.
L'autobus rallenta, macchine posteggiate a destra e a sinistra creano qualche problema, il tempo di riprendere la corsa e l'autista è costretto a piantare il piede sul
freno: - Guardalo, guardalo come attraversa, è tutta sua la strada. Non s'è reso conto di niente, quello. C'è mancato un pelo per finire sotto e lui non lo sa -. Si gira verso di loro: - Ma io glielo dico sempre a mia moglie: Se chissà da vecchio non ci fossi più (battendosi un dito sulla tempia destra) con questa qui, spero e prego Dio che mi faccia morire in quattro e quattr'otto, e buon Capodanno a tutti. A stare tutto il giorno qua c'è da uscire pazzi. Io arrivo a casa che mi sento... lasciamo perdere, lasciamo perdere come mi sento -. Ingrana la marcia e riparte.
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Manca poco per il passaggio a livello di Bagheria, subito dopo ci sarà la fermata. Lei ha visto con la coda dell'occhio dove lui, dietro, è seduto; li separa una fila. Si gira,è un sorriso un po' esitante, ma è un sorriso: -Con un po' di fortuna, arriveremo -. Non se l'aspettava, si confonde, le fa sì ripetutamente con la testa. Mentre lei si rigira, riesce a dire: - Con un po' di fortuna, sì... -. Ci rimane male, rimane sospeso sul quel sì, cui sperava di accodare qualche parola, che fosse però sua. Se ne fa un compito, qualcosa deve dire. Dieci, quindici infiniti secondi e finalmente: - Anche lei deve andare alla stazione? -. Lei risponde girandosi solo a mezza faccia: - Sì. Sa quando passa il prossimo treno per Palermo? -. - Tra venti minuti; non dovremmo avere problemi -. - Ah, va anche lei a Palermo! -. - Sì. Ma che fa, comincia a piovere! -.Non c'è da attendere, il passaggio a livello è aperto, l'autobus lo supera e poco dopo si ferma. Scendono. Lui l'aiuta a mettere giù la valigia. Dopo averlo ringraziato: - Magari piovesse, rinfrescherebbe un po', invece sono solo tre gocce -.

S'avviano. Da lì per la stazione due minuti a piedi. In silenzio, ognuno pensando di dire qualcosa. Sembra che dalle tre gocce si stia passando alla pioggia, affrettano il
passo, ma per poco, tornano le gocce.
Il treno è in orario, salgono, c' è gente sul corridoio, non vanno avanti, rimangono lì, in piedi.
- Guardi, stavolta piove -, fa lui.
- Lasciamo passare almeno un minuto. Così, per scaramanzia. Ci spero tanto in un po' di pioggia che farei una danza propiziatoria -. Sospira. - Sono due notti che non dormo. E le notti prima non è che abbia dormito bene.
- Ci stringiamo la mano? Io è da un po' che non dormo.
- Anche lei per la puzza?
- La puzza?
- Abita ad Aspra, lei?
- Sì, sono di Aspra ed abito ad Aspra.
- E non sa di che parlo?
- Ah, sì, ho sentito l'altro giorno, alla Posta... parlavano dell'odore terribile che viene
dal depuratore.
- E lei la notte...
- No, non l'ho sentito. Forse non mi funziona più il naso.
- Ma non si può resistere. È così terribile che anche senza naso, secondo me, si sentirebbe lo stesso. Dicono come di uova marce; ma marce da quanto tempo? Odore nauseabondo!, ecco un'altra espressione di certe persone. Ma come si fa, parlando di un odore che ti fa vomitare, come si fa a dire nauseabondo. Roba letteraria, la sento leziosa. Una parola così la puoi dire mentre bevi un te e mangi un pasticcino: “Oh, che odore nauseabondo! Alfredo, chiudi la finestra”. M'è venuto Alfredo, chissà perché! E lei di tutto questo, niente.
- Sto andando a Roma, da mio fratello, si chiama Alfredo.
- Sul serio?
- No, scherzavo. Però a Roma ci vado sul serio, e da mio fratello, che si chiama Roberto.
- Quanto tempo è che non vado a Roma! Saranno quattro, cinque anni. Eppure potrei, anche facilmente. Mah! -. Per qualche secondo s'addentra in chissà quale pensiero.
Riprende: - Io vado a Palermo, in casa d'amici. Ogni tanto telefonerò ad una signora
che abita vicino a me, le chiederò se quello schifo di odore continua, e finchè continua me ne starò a Palermo.
- Addirittura!
- Ma dove abita, lei? Io non riesco a credere che...
- Io abito in via Gabriele D'annunzio.
- E non sente...?
- No, non sento.
alt- Lei deve andare da uno specialista. So di persone che abitano proprio in quella via e non riescono a dormire. Con un caldo intorno ai trenta gradi, quella puzza costringe a vivere serrati in casa. Di notte, non ci resisti, apri la finestra della stanza da letto e speri, speri che quella notte non arrivi, ma non ci sono santi, intorno alla mezzanotte eccola che entra, e subito ti riempie la casa. Allora chiudi, e quell'odore insopportabile si spande ovunque. Allora devi aspettare, mezz'ora, un'ora, e riapri, con molta cautela. Non c'è, e riapri tutte le finestre per creare corrente e fare uscire lo schifo che è rimasto. E di nuovo speri, per dormire un po'. Ma hai fatto male a sperare, perché intorno alle due, alle tre, entra la zaffata. E richiudi, velocissimamente. E poi, e dopo, sempre, ogni notte, tutte le notti. Ah, dimenticavo!, c'è l'altra poi, quella mattutina, intorno alle cinque, che sa di alba, un'alba di merda.

Ti alzi e vai al lavoro. Lei mi sta guardando come se fossi pazza. Non lo sono, sono incazzata nera. E se lei fosse un mio familiare, ora mi permetterei di piangere.

Rimane per qualche istante con gli occhi su di lui, un po' a disagio sotto quello sguardo, anche se sa benissimo che non è veramente su di lui.
- Ha gli occhi lucidi; non è che stia per accogliermi in famiglia!?
Il treno parte.
altGli risponde con un sorriso, ma un sorriso di seconda scelta, di quelli fatti tanto per accondiscendere alla battuta. E il disagio in lui s'accresce. Sta pensando che forse è il caso di entrare in uno scompartimento e sedersi tranquillo, si fa per dire, per quei dieci minuti, più o meno, che occorrono per Palermo. Ora lei ha gli occhi bassi, sul trolley, uno sguardo perso.

Come si fa a staccarsi da lì, da lei, salutare e andare?

- Francese! - È quasi una sorpresa per lui risentirla parlare. - Lei mi trova la erre moscia?
- No. E poi non ci sono dubbi che lei sia italiana.
- Quello mi voleva vedere francese. Sono di Parma. E sono in Sicilia da quattro anni.
Dirle perché, come mai, sarebbe lungo e inutile. Sono venuta ad abitare ad Aspra quasi subito. Dopo un paio di mesi che ero a Palermo, vengo per caso con un amico ad Aspra, e me ne innamoro. Impazzita, letteralmente. Questo paesino tutto sul mare, una costiera meravigliosa, il golfo di Palermo tutto a vista... Siete dei pazzi. Un paese così...! Ma vedo che lei non mi ascolta.
- Mi scusi, ma... sento il bisogno di sedermi.
- Sta male?
- Bene, certo, non sto.
- Ah, già!, diceva che anche lei non riesce a dormire. Soffre d'insonnia?
- Io vado a sedermi. Spero che a Palermo... e che quella signora le dica presto che è finita, la puzza -. Puzza, l'ha detto sorridendo. Un bel sorriso timido. Si gira, si ferma, si rigira: - Sono stato licenziato. Tre mesi fa.
Passa un treno velocissimo in senso inverso. Lei, che è vicina al finestrino, ha un soprassalto.
Dopo qualche istante: - Licenziato?
- Sì, licenziato. Ero... sono, sono un ragioniere, lavoravo in una ditta di surgelati. Da ventidue anni.
- Mi dispiace molto.
- Anche a me. Forse un po' di più. Mi scusi, battuta cretina, lo so, ma non so che dire.
- Ha famiglia?
- No, per fortuna niente figli. Per fortuna. Sono separato da più di quindici anni.
Vorrebbe dire qualche parola, lei, per incoraggiarlo a resistere, a tenersi su, ma il timore dell' ovvio, del solito bla bla, sicuramente peggiorativo in questi casi, la spinge a stare zitta.
Lui si gira a guardare fuori; s'avvicina al finestrino; le è di spalle.
Lei sta ancora a soppesare, a considerare...
Quei tipici rumori di un treno in corsa amplificano il silenzio.
- E suo fratello... qualche speranza di lavoro a Roma?
Ha temuto che lui non sentisse, preso dal panorama o da sé, ma un leggero movimento della testa, ora quasi di profilo a lei, le toglie il dubbio, ha sentito.
Rimane così, sembra che stia pensando alla risposta. Si gira: - No, nessun lavoro.
Vado così, per muovermi, per non stare in casa.
- Suo fratello che lavoro fa?
- Lui ha avuto un'altra vita. Laurea in economia e commercio; una bella mente.
Lavora in una finanziaria. Sembra sereno. La famiglia finisce qui, io e lui. Mio padre è morto tanti anni fa, mia madre l'anno scorso. E lei?
- Una sorella. Genitori separati, ogni tanto vedo l'uno, ogni tanto vedo l'altra.
- Per il padre, l'uno, lo capisco, ma per la madre, l'altra... sarò del Sud, ma mi suona strano.
- Le dovrei parlare di noi, della mia famiglia... Una noia!
- Lei lavora?
- Sì, nel settore abbigliamento.
- E come va?
- Non male, ma stiamo con gli occhi aperti. Siete stati in molti a essere licenziati?
- Dodici.
- Su quanti?
- Su trentadue. Sono diminuiti gli ordini, a quanto pare, e così... A cinquant'anni sono un esubero, un di più -. Si fa affiorare un sorriso.
- Lei è ancora giovane, e non mi dà il senso... -. E s'accorge, Dio santo!, di esserci cascata. Luogo comune, no, l'ovvio, no... e ci casca in pieno.
- Non le do il senso di cosa?
- Niente, lasci perdere. Guardi, sta piovendo. E stavolta sul serio.
S'avvicinano entrambi al finestrino. Piove di brutto. Sembrano veramente presi dalla pioggia. Ne passano di secondi, con loro così, a guardare, in silenzio.
Lui: - Vado a sedermi.
- Ma siamo quasi arrivati!
- Vado a sedermi lo stesso -. E prende il trolley.
- Io rimango qui. Mi stia bene.
- Anche lei.
Lo vede entrare nel terzo scompartimento.
Si rincontrano dopo un paio di minuti, scendendo dal treno.
Le auguro dei buoni odori, stava per dirle, ma le passa accanto, un sorriso, e via.
Lei forse avrebbe ricambiato: Anche a lei.
 

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