Appunti per una storia di Bagheria nel Risorgimento (3) - di Biagio Napoli

Appunti per una storia di Bagheria nel Risorgimento (3) - di Biagio Napoli

cultura
Typography

Tra i capiguerriglia che condussero a Palermo le loro squadre durante l’impresa garibaldina del 1860 vi fu Francesco Gandolfo. In un prospetto delle guerriglie siciliane, quella comandata da Francesco Gandolfo viene collocata da Giuseppe La Masa al n. d’ordine 57.

Essa, proveniente da Bagheria e Santa Flavia, ha come destinazione l’Università e il Quartier Generale ( 1 ). Nel Rendiconto dell’Intendente del campo di Gibilrossa signor Nicolò Sunseri, il nominativo del Gandolfo tuttavia non è presente ( 2 ). E’ presumibile perciò che egli non sia giunto con la sua squadra nel punto di raccolta di Gibilrossa nei primi giorni. Lo troviamo però nel Rendiconto del nuovo Intendente. L’intendenza infatti, conquistata Palermo, e dopo l’abbandono della carrozza dell’intendenza durante l’attacco alla città ( 3 ), passerà di mano e verrà riorganizzata da Pasquale Mastricchi, maggiore contabile. Nel suo Rendiconto troviamo il nominativo di Francesco Gandolfo negli statini del 4, 5 e 6 giugno. Il 4 giugno verranno corrisposti al Gandolfo 10 piastre per il soldo ai suoi 30 uomini e una gratificazione di 30 piastre come caposquadra. Il 5 giugno ancora 10 piastre per i suoi uomini. Il 6 giugno le piastre saranno 13 più 8 tarì per 41 uomini ( 4 ). Francesco Gandolfo è presente anche nel “Quadro delle squadre siciliane esistenti in Palermo ai primi di giugno 1860” dello studioso Pietro Merenda al n. d’ordine 31 in cui si conferma la provenienza di quegli uomini ( Bagheria e Santa Flavia ) e la loro destinazione presso l’Università e il Quartier Generale ( 5 ).

Nicola Previteri, scrivendo della rivolta antiborbonica dell’ottobre 1859 a Bagheria, , nota come “il Gandolfo è quello stesso che la notte del 12 gennaio 1848, alla testa di una squadriglia di diciotto uomini marciò su Palermo dove rimase a combattere fino alla cacciata dei borbonici” ( 6 ). Si troverà presente in due delle imprese di guerra più importanti di quella rivoluzione.

A raccontarcelo è G. Simoncini-Scaglione che scrive: “Sebbene le bande armate avessero cercato, sin dapprincipio, di assalire il palazzo delle finanze, pur non ci erano riuscite, essendo quell’edificio... guardato alle spalle dal quartiere della gendarmeria. ...Per venire alla bisogna fu stabilito di impadronirsi del quartiere della gendarmeria...Allora Pasquale Mastricchi, i fratelli Campo, Giovanni Oliveri, Cosimo Marchionni, Giovanni Brasotti...uniti alla squadra comandata da Francesco Gandolfo...aprirono il fuoco sul tetto del quartiere. Saltarono le tegole...ed allora si presero duecento pentolini di terracotta, si riempirono di stoppia imbevuta d’acqua ed alcool con l’aggiunta di colofonio, ed accesili, furono buttati dentro. ...I pentolini certamente non potevano tenere desto l’incendio; e, quindi, si dovette...giovarsi di una quantità di rami d’ulivi che erano in tre grandi carrette di cui bisognò impadronirsi a viva forza, nella piazza del Garraffello. E, così, alimentato il fuoco, e lanciata nella voragine una piccola bomba, i gendarmi fulminati dagli sbocchi delle vie si perdettero d’animo e la notte si ritirarono nel palazzo delle finanze. Il presidio che ivi trovavasi...si rese costituendosi prigioniero” ( 7 ).

L’altra impresa di guerra, cui Francesco Gandolfo e la sua squadra parteciparono, riguarda la capitolazione del Castello a mare. Ancora il Simoncini-Scaglione: “Il forte La Garita, che aveva da una parte il mare,e, dall’altra, il forte di Castellammare, all’imboccatura della Cala...era in potere degli insorti...Alcuni patrioti, volendo rendere utile la Garita...con due cannoni e 200 cariche delle quali 100 a mitraglia, si recarono sul luogo insieme con la banda armata del Gandolfo...Il 4 febbraio, a mezzogiorno, si aprì il fuoco. Dopo quattro ore di vivo fuoco, soddisfatto l’onore delle armi, Castellammare inalberò bandiera bianca” ( 8 ).

Dopo la sconfitta della rivoluzione, Francesco Gandolfo continuò ad essere in contatto con i principali cospiratori antiborbonici (Bentivegna, Campo ) essendo tra gli organizzatori della rivolta dell’ottobre 1859 a Bagheria.

Gli anni ’50 dell’ottocento furono anni di cospirazioni e rivolte. Già a distanza di pochi mesi dalla restaurazione, si ebbe l’infelice tentativo del 27 gennaio 1850 che, a Palermo, determinò la morte per fucilazione del giovane Nicolò Garzilli e di altri cinque rivoltosi. Seguì un periodo di assiduo lavoro di riorganizzazione. Anche il 1853, tuttavia, non fu per i cospiratori un anno favorevole. Ne verranno arrestati, tra febbraio e marzo, come risultato di delazioni, trenta. Tra di essi Francesco Bentivegna, di Corleone, e Salvatore Spinuzza, di Cefalù, e c'era anche  Francesco Gandolfo di Bagheria.

Rimasero in carcere fino all’estate di tre anni dopo quando, il 25 luglio del 1856, la Gran Corte Criminale di Trapani li assolveva dalle accuse mosse loro ( 9 ). Il barone Bentivegna esce di prigione il 2 agosto riprendendo immediatamente a cospirare; contatterà il comitato rivoluzionario di Palermo e i rivoluzionari di numerosi paesi; tra questi Cefalù, e Termini portandosi “prima in Bagheria” dove “parlò con Francesco Gandolfo, uomo di molto coraggio”(10 ).

La rivolta interesserà però soltanto Mezzojuso, scoppiando il 22 novembre, e Cefalù, dove invece scoppia il 25, senza che Bagheria e altri paesi partecipino e, soprattutto, senza l’appoggio di Palermo. Il Bentivegna verrà “moschettato” il 20 dicembre del 1856; lo Spinuzza il 14 marzo del 1857. Un nuovo fallimento, e stavolta a Bagheria, lo avremo a distanza di tre anni. Francesco Gandolfo sarà stavolta in prima fila. Ma quella rivolta non doveva interessare soltanto Bagheria; doveva toccare l’intera Sicilia ( e le Romagne ) e, nell’isola, per organizzarla era venuto, inviato dal Mazzini, durante l’estate di quell’anno, Francesco Crispi ( 11 ).

C’era stato l’armistizio di Villafranca e i tempi si ritenevano maturi per una estesa sollevazione. Stabilirono l’insurrezione per il 4 di ottobre, onomastico del re e giorno di gala, con la truppa da assalire in via Toledo ( oggi corso Vittorio Emanuele ) al ritorno dalla parata al foro borbonico ( oggi foro italico ). Ma il disegno non ebbe effetto perché la polizia, avuto sentore della congiura, ne arrestò alcuni capi mentre altri dovettero nascondersi. Peraltro quel giorno non ci fu nessuna parata militare. La rivolta venne perciò sospesa. Giuseppe Campo, che doveva iniziare la rivolta a Bagheria passando poi da Villabate e Misilmeri per raccogliere altri uomini, era tuttavia risoluto a non fermarsi, incoraggiato da alcuni cospiratori palermitani e anche da Francesco Gandolfo che gli aveva promesso molti rivoltosi ( 12 ).

Costoro dovevano però essere raccolti e la rivolta fu spostata al 10 di ottobre. Ecco quello che avvenne secondo il Giornale officiale di Sicilia dell’11 ottobre 1859: “Una mano di uomini, nei quali non sappiamo se sia più grande la colpa o la stoltezza, l’una e l’altra certo grandissime, tentò turbare quella tranquillità che è troppo energicamente tutelata per non venire meno a qualsiasi urto. Riunitasi verso le sei pomeridiane di ieri fuori il paese di Bagheria, donde eran nativi, recaronsi alla marina d’Aspra, dove sorpreso l’antro doganale, impossessandosi delle armi dei marinari e del denaro che vi trovarono, di là, pel versante del monte Zafferano si diressero alla volta di Porticello, uccidendo lungo la via il colono Giuseppe Scordato, che animoso non volle loro fornire il suo fucile. Giunti al Porticello disarmarono la Guardia Urbana, come pur praticarono con quella di Santa Flavia, dove entrarono levando grida sovversive a commuovere la popolazione. Continuando il loro cammino s’indirizzarono per Ficarazzelli, dopo aver ucciso un altro villico che niegò di unirsi ad essi, ed evitando il comune di Bagheria per non essere attaccati dalle poche milizie, che vi tengono guarnigione. Questi deplorabili fatti erano senza indugio recati alla conoscenza dell’Autorità, cui è confidata la tutela dell’ordine pubblico, ed immediatamente al Capitan d’Armi Cav. Chinnici ingiungevasi di perlustrare con diciotto uomini tutta la strada, che da Palermo mette alla Bagheria, dove, pervenne, giusta le istruzioni ricevute, non avendo la banda armata osato attaccare la forza pubblica ed essendo ricoverata nei giardini che fiancheggiano dal lato diritto il cammino fra Bagheria e Ficarazzelli.

Contemporaneamente alla partenza dei diciotto soldati di Armi, muoveano da Palermo quaranta guardie di Polizia e nove gendarmi sotto gli ordini dell’Ispettore sig. Sgarlata colla istruzione di fermarsi all’Acqua de’ Corsari ed ivi cooperare al bisogno della Guardia Urbana di Villabate, affin di tagliare la via alla comitiva armata. Verso l’ora prima di stamane una viva fucilata annunciava la presenza in questo Comune della Banda che cercava di disarmare la guardia Urbana, e che investita vigorosamente dalle Guardie di Polizia, accorse dall’acqua dei Corsari, retrocedeva smembrandosi e lasciando uno dei suoi nelle mani della forza pubblica...La pubblica forza è già alla seguela dei fuggenti, ricovratisi nella montagna sovrastante a Villabate e l’ordine pubblico non è stato minimamente scosso” .

Da quanti era composta quella che, secondo il giornale, era una mano di uomini? A questo proposito Raffaele De Cesare dà su Francesco Gandolfo un giudizio molto pesante quando scrive: “Giuseppe Campo giovane di grande coraggio, ma non di pari esperienza, aveva fatto assegnamento sulle spavalderie di un suo castaldo, tal Gandolfo, il quale gli aveva dato ad intendere di poter disporre di tutti gli uomini d’azione di Bagheria e vicinanze, i quali ad un cenno si sarebbero raccolti sotto la sua direzione. Ma invece intorno al Campo, la sera del giorno 8 ottobre, non si trovarono che cinque o sei uomini armati. ...Nella notte tra il 10 e l’11, il Campo, con un pugno di uomini, irruppe...” ( 13 ).

E’ Girolamo Di Marzo-Ferro a dirci con precisione il numero degli uomini promessi da Gandolfo e quello degli uomini veramente riunitisi: “Giuseppe Campo assicura che avrebbe dato il segnale in Bagheria, ove Francesco Gandolfo l’aspettava con 400 uomini tutti armati di fucile. ...Partendo la sera del venerdì...all’alba del sabato in Bagheria...invece di trovarvi pronti i 400 da Gandolfo promessi...ne trovarono circa un 35, e questi stessi malamente armati. ...Campo con quei pochi uomini inalberò il vessillo rivoluzionario” ( 14 ).

Secondo Giuseppe Paolucci quegli uomini erano più numerosi: “Il Campo, raccolti la sera del 10 ottobre un 90 uomini in una casina dell’Aspra presso il lato settentrionale del capo Zafferano, disse loro: “che bisognava insorgere per far entrare la Sicilia nel movimento italiano; se avevano l’animo di gettarsi su Palermo, la rivoluzione vi si sarebbe d’un subito compiuta: bastava una favilla per destare un grande incendio” ( 15 ).

Trenta o novanta che fossero quei rivoltosi, l’esaltazione che aveva portato Francesco Gandolfo a promettere quanto non poteva mantenere, era la stessa che spingeva Giuseppe Campo ad imbarcarsi in una impresa che non poteva non essere fallimentare ( 16 ). Sappiamo chi fu l’informatore dell’Autorità, cioè del cav. Maniscalco, direttore della polizia borbonica, da una lettera che Rosolino Pilo scrisse al suo amico Salvatore Calvino e nella quale leggiamo: “L’11 ottobre, dietro denunzia del fratello di Scordato, il famoso ladro, la polizia cercò di disarmare i campagnuoli della Bagheria, Santa Flavia, Ficarazzi, etc. ed una specie di insurrezione ha avuto luogo” ( 17 ). Poichè il famoso ladro non può che essere Giovan Battista, brigante, morto peraltro da tempo ( 1843 ), e poiché Giuseppe è ancora in galera, la spia in questione non può che essere il terzo fratello, quello più giovane, Baldassare Scordato. Precisiamo che lo Scordato ucciso dai rivoltosi nulla ha a che fare con costoro. Si trattava infatti di un impiegato dell’amministrazione borbonica che aveva il compito di sorvegliare la costa che dall’Aspra arriva al capo Zafferano ( 18 ). Aggiungiamo che, a Villabate, “nel conflitto con le guardie urbane...una vi morì” ( 19 ) e che il rivoltoso catturato dalle forze regie, tale Antonino Billitteri, ferito, morì il giorno successivo ( 20). Il bilancio di quella rivolta in definitiva era stato di quattro morti; avrebbe comunque dato il via ad un giro di vite repressivo sempre più pesante.
Francesco Gandolfo fu dunque un rivoluzionario ( 1848 ), un garibaldino ( 1860 ) e, per tutti gli anni ’50, un cospiratore. Ma, a conferma del fatto che “ogni uomo si presenta al giudizio della storia con pagine di luce e di ombre” ( 21 ), Gabriele Colonna scrive: “Giuseppe Andolfo, nel quale il Campo solea riporre maggiore fiducia, si presentò alla polizia e narrò quanto era a sua conoscenza” ( 22 ). Giuseppe Andolfo vale naturalmente per Francesco Gandolfo. Disse alla polizia soltanto quel che essa già sapeva?

BIAGIO  NAPOLI

Note.
1-Giuseppe La Masa, Alcuni fatti e documenti della rivoluzione dell’Italia meridionale del 1860 riguardanti i Siciliani e La Masa, Torino 1861, pp. 162-163.
2-Ivi, pp. 245-261.
3-Ibidem. Cfr. anche B. Napoli,, Ladri ed eroi, considerazioni su alcuni fatti e personaggi del maggio 1860, on line su www.Bagherianews.com.
4-Rendiconto di cassa dell’amministrazione avuta nel corpo d’armata Cacciatori dell’Etna e Guerriglie Siciliane del Maggiore contabile Pasquale Mastricchi dall’1 giugno al 13 luglio 1860, on line su www.booksgoogle.it.
5-Pietro Merenda, Contingente delle squadre siciliane esistenti in Palermo ai primi di giugno 1860, Rassegna Storica del Risorgimento, anno XVIII, Supplemento al fascicolo I, XVIII Congresso Sociale di Palermo, 1931, p. 188.
6-Nicola Previteri, Verso l’Unità gli ultimi sindaci borbonici di Bagheria, Bagheria 2001, p. 248.
7-Giovanni Simoncini-Scaglione, Dal 48 al 60, Ricordi Storici, Palermo 1890, pp. 34-35.
8-Ivi, pp. 37-39.
9-La lunga vicenda processuale, con i conflitti su quale dovesse essere l’organo giudicante e il ricorso da parte della difesa alla Suprema Corte di Giustizia, mentre i trenta subivano il carcere duro essendo, appunto, in attesa di giudizio è raccontata in Alfonso Sansone, Cospirazioni e rivolte di Francesco Bentivegna e compagni, Palermo 1891, pp. 85-86.
10-Spiridione franco, Storia della rivolta del 1856 in Sicilia, Roma 1899, pp. 10-11. Alfonso Sansone ( op. cit., p. 100 ) scrive tuttavia che il Bentivegna, nel suo giro di propaganda per i paesi del palermitano, “s’abbocca in Bagheria con Giuseppe Campo”. Ma i due sono in contatto, sia perché cospiratori, sia perché il Gandolfo è castaldo del Campo che ha casa e proprietà a Bagheria. E’ probabile che il Bentivegna li abbia perciò incontrati entrambi.
11-“Riunitosi con Salvatore Cappello e i fratelli Salvatore, Raffaele e Pasquale De Benedetto in un fondo della Roccella poco distante dalla città, modellò in creta delle pirogranate o bombe all’Orsini...che poi Giuseppe Bruno fece costruire di ferro in numero di 75. Con tali armi e col popolo consenziente sperarono di riuscire vittoriosi”. G. Paolucci, Da Francesco Riso a Garibaldi. Memorie e documenti della rivoluzione siciliana del 1860, Archivio Storico Siciliano, nuova serie anno XXIX, Palermo 1904, p. 105.
12-Casimiro Pisani figlio, che faceva parte del comitato rivoluzionario di Palermo, “ cercò di dissuadere il Campo parlandogli più volte, ed una specialmente sulla banchina, in riva al mare, al foro borbonico...”. Gabriele Colonna, La cospirazione di Palermo nel 1860, Rivista Sicula di Scienze, Letteratura ed arti, maggio 1870, p. 545.
13-Raffaele De Cesare, La fine di un regno ( Napoli e Sicilia ), Città di Castello 1900, parte II, p. 154.
14-Girolamo Di Marzo-Ferro, Un periodo di storia di Sicilia dal 1774 al 1860 da servire di continuazione alla storia di Di Blasi, Palermo 1863, vol. II, pp. 369-370.
15-Giuseppe Paolucci, op. cit., p. 106.
16-Anche per Nicola Previteri ( op. cit. pp. 248-249 ) quei rivoltosi erano una trentina. Differente è però la sua ricostruzione dei fatti. Per il Previteri quegli uomini, divisi in due gruppi, assaltano contemporaneamente l’antro doganale di Aspra e la guardia urbana di Porticello e Santa Flavia, riunendosi poi a Capo Zafferano.
17-Giacomo Emilio Curàtulo, Garibaldi, Vittorio Emanuele, Cavour nei fasti della patria, Roma 1911, p. 52.
18-Nicola Previteri, op. cit., p. 249. Nella nota 111, pag. 292, il Previteri annota che lo storico Denis Mack Smith ( Storia della Sicilia medievale e moderna ) confonde i due Giuseppe Scordato, facendo dell’”eroe” del ’48 un guardiacoste. Questa confusione, peraltro, permetterà a Oreste Girgenti ( Bagheria, origini e sue evoluzioni, edizioni Soleus 1985, pp. 197-198 ) di polemizzare strenuamente con lo storico inglese.
19-Giuseppe Paolucci, op. cit., p.107.
20-Nicola Previteri, op. cit., p. 250.
21-Gaetano Falzone, Per il general Corrao, in Studi in memoria di Gaetano Falzone, Ila Palma , Palermo 1993, p. 612.
22-Gabriele Colonna, op. cit., luglio ed agosto 1870, p. 144.

APPENDICE PRIMA
Dove una sera in una osteria di Bagheria alcuni cospiratori prendono del pane e del vino in cambio di monete d’oro e dove si dice quali altri cospiratori palermitani erano pronti ad aiutare Giuseppe Campo.
“Giambattista Marinuzzi, uomo arditissimo e accortissimo, per sapere a che attenersi, decise di andare a trovare il Campo. In compagnia dell’architetto Tommaso Di Chiara, che fingeva di andare per affari e portava con se lettere d’affari, si recò la sera del 10 in Bagheria; a un’ora di notte s’abboccò col Campo, che gli disse di essere già cominciato il movimento e che l’indomani avrebbe immancabilmente assaltato Palermo. Tutti e tre comprarono a un’osteria del pane e del vino, che il Marinuzzi pagò in oro. Ritornati i due a Palermo attesero l’indomani mattina il rumore del movimento, ma nulla s’intese; ...Nei giorni seguenti cominciato il processo pei fatti di Santa Flavia e Villabate furono arrestati o fatti presentare una trentina di persone, che dichiararono di non conoscere altro capo che il Campo e il suo castaldo Francesco Gandolfo. Però aggiungevano che costoro la sera del movimento s’erano abboccati con un forestiero, un alto personaggio, il quale era venuto da Palermo accompagnato dall’architetto Di Chiara, aveva loro promesso mari e monti e pagato del pane e del vino con monete d’oro. ...Ma nessuno sapeva il nome del forestiero. L’architetto Di Chiara visse latitante un paio di mesi, finchè si imbarcò per l’inghilterra. Il Campo ebbe modo di introdursi vestito da prete in Palermo, dove visse nascosto nella propria casa malgrado le rigorose ricerche della polizia, finchè anch’egli travestito da marinaio fuggì a Genova su un legno del capitano Corvaia ( 6 novembre ). Si avevano i connotati del forestiero andato in Bagheria, ma non se ne sapeva il nome: onde il Marinuzzi stimò prudente di mutare il taglio della barba e il vestito. E mentre la polizia lavorava a chiarire il mistero del forestiero innominato, com’è chiamato nei rapporti, gli amici di lui, che conoscevano il fatto, incontrandolo gli sogghignavano con una stretta di mano: addio, forestiero; addio, alto personaggio”. Per la sua instancabilità a partecipare a tutti i complotti rivoluzionari il Marinuzzi era soprannominato la cucchiara di tutti li pignati”. Giuseppe Paolucci, op. cit.,, pp. 106-108.
“Il Campo si accinse deliberatamente all’impresa con gli uomini di Misilmeri e di Bagheria. Negli altri punti si ignorava il progetto del Campo...solo nei pressi della città ed alla piana dei Colli, trapelando qualche sentore, faceansi preparativi per appoggiare la rivolta...Comunque sia, il Campo mantenne la sua parola...Recossi alla Bagheria e vi radunò gli armati. Quivi lo raggiunse Giambattista Marinuzzi, che affettava un linguaggio straniero per dissimulare la entità propria e che, accompagnato dall’architetto Tommaso Di Chiara, diede alcune somme raccolte dagli amici di Palermo, prese accordi col Campo ... Entro Palermo G.B. Alaimo aveva radunato parecchi uomini; altri, circa quaranta, ne radunava Salvatore Pellegrino entro il portone di sua casa in via Scopari, attendendo che a porta di Termini si udissero i primi colpi del Campo...La guerriglia dei Colli, comandata da Salvatore La Licata, e composta di sessanta individui, erasi appiattata nella notte dal 9 al 10 presso porta Maqueda al Giardino Inglese dove resta sin quasi al mezzogiorno di domani”. Gabriele Colonna, op. cit., maggio 1870, pp. 545-546.
APPENDICE SECONDA
Si descrive il destino di Salvatore La Licata, intendente della contessa di San Marco ,tenendo presente che molti dei compromessi nei fatti di Giuseppe Campo restarono sulle montagne sino allo scoppio della rivoluzione del 1860, che Girolamo D’Alessandro, capo degli armati di Villabate, s’imbarcò per l’America dopo circa due mesi, che anche il Pellegrino riuscì ad imbarcarsi, e che l’Alaimo subì invece la sorte del La Licata, il carcere.
“Salvatore La Licata, intendente della contessa di San Marco, perseguitato dalla polizia come inquisito di mene rivoluzionarie, ricovravasi nel villaggio di Bagheria, in una casa di provati amici. La polizia n’è istrutta, e sorprende la casa, vi fruga, vi cerca, ma indarno; un birro, chiamato il Corso, antico sicario ed assassino, suggeriva al suo capo un espediente, che accoltolo con gioia faceva condurre in strada i due coniugi e là alla presenza del marito ordinava si spogliasse nuda la sposa, e restasse così esposta allo sguardo dei cittadini che transitavano: il pudore oltraggiato vinceva la fede ospitale, e La Licata era consegnato ai suoi persecutori”. Storia dell’insurrezione siciliana dei successivi avvenimenti per l’indipendenza ed unione d’Italia e delle gloriose gesta di Giuseppe Garibaldi compilate su note e documenti trasmessi dai luoghi ove accadono da Giovanni La Cecilia, Milano 1860, vol. I, p. 23.
La casa di provati amici in cui si era nascosto Salvatore La Licata era, in realtà, “la cantina sotterranea del guardiano della contessa di San Marco, dove venne scoperto dalle guardie a seguito delle sevizie cui vennero sottoposti il guardiano e sua moglie”. Giuseppe Pandolfo, Una rivoluzione tradita. I siciliani e Garibaldi, Palermo 1985, vol I, p. 113-114.
“Ei fu sottomesso alla tortura. Dei suoi strazii si parlò molto in quel tempo, e chi scrive queste memorie ebbe a vederlo nell’aprile 1860 in un ambulatorio delle Grandi Prigioni ancora con la testa fasciata e malconcia, per la lamina di metallo progressivamente stringente che la polizia gli aveva applicato attorno al capo, sperando così di trarne qualcuna di quelle rivelazioni che ardentemente desiderava, e che però non ottenne”. Gabriele Colonna, op. cit., luglio-agosto 1870, p. 145.

Aprile 2016 Biagio Napoli

We use cookies

Utilizziamo i cookie sul nostro sito Web. Alcuni di essi sono essenziali per il funzionamento del sito, mentre altri ci aiutano a migliorare questo sito e l'esperienza dell'utente (cookie di tracciamento). Puoi decidere tu stesso se consentire o meno i cookie. Ti preghiamo di notare che se li rifiuti, potresti non essere in grado di utilizzare tutte le funzionalità del sito.