Bagheria come un’infanzia (10) - di Biagio Napoli

Bagheria come un’infanzia (10) - di Biagio Napoli

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1-Via Monteleone. Andavamo là quand’era il tempo delle noci; donna Rosina, una vecchietta rinsecchita e rugosa, le teneva nel suo grembiule.

Le compravamo ed eravamo così pronti per il gioco del rovè , cioè noce sopra noce sotto e una botta con un pezzo di mattone o con una pietra. Perdeva quello la cui noce si rompeva . I ragazzi del quartiere, se il gioco lo facevamo tra di noi, eravamo sicuri che non c’erano imbrogli. Se venivano da altri quartieri dicendo rovè rovè ma fazzu puru cu figghiu ru re, li guardavamo con sospetto. Sapevamo che c’erano dei furbi che aprivano a metà la loro noce, la svuotavano, la riempivano di pece calda, la richiudevano. Diventava come una pietra. Vincevano sempre.

2-Nel casalino.
Mio padre ci piantò un fico e un banano al centro e, ad uno degli angoli, un pesco. Il banano si moltiplicò in poco tempo e gli altri due alberi si fecero tanto alti da superare il muro. I rami del pesco sporgevano oltre quel muro e i ragazzi venivano a tirare sassi per far cadere quei frutti. Non si curavano di colpire qualcuno o di rompere i vetri delle finestre. Nel casalino davano la finestra, grande, della stanza da letto dei miei genitori e quella, piccola, del gabinetto. Vi si andava dalla cucina attraverso un portoncino che si chiudeva dall’interno, con i ferri. Mia madre vi sistemava una trappola per topi con dentro un pezzetto di formaggio. Il prigioniero lo infilava, con tutta la gabbia, dentro un secchio colmo d’acqua. Il topo affogato lo andava poi a gettare fuori, nell’immondizia. Ma un gatto che girava per casa e che quei topi doveva prenderli c’era sempre. E cacava nne gnuni. Fino a quando mia madre non decideva di educarlo. Allora, prendendolo per il collo, supra ddri gnuni ci stricava a sò funcia. I bisogni andava a farli fuori.

3-
-Suca.
-A mia e o duca.
-Passa tò suoru e buca.
-Buca oilì oilà,
fissa e cavura ri tò mà.

corso butera4-Via Gigante.
E’ una traversa a nord di via Quattrociocchi più vicina al corso Butera. Vi abitavano i miei padrini di battesimo, la zia Peppina, sorella di mio padre e lo zio Piddru, suo marito, e i figli e miei cugini Pietro, detto Pieruccio, per distinguerlo dal cognato che aveva lo stesso nome ma era un omone, e Maria. La casa ( c’è ancora ma non appartiene più a nessuno della famiglia ) è una palazzina con un pianterreno, un primo piano e una terrazza in parte coperta come s’usava una volta. La persiana di via Gigante si apriva nel salotto buono e in casa si entrava invece dalla stradina laterale attraverso una piccola stanza da pranzo. Quella stanza, quando il mio padrino non fu più capace di salire le scale per andare di sopra, diventò la sua stanza da letto. E stava sempre coricato, così me lo ricordo, con la bombola dell’ossigeno accanto perché il suo cuore era troppo malandato. Mi volevano un gran bene ed io ero loro molto affezionato. Andavo spesso a casa loro. Mi sedevo accanto al mio padrino e si stava a parlare. Ogni volta mi davano il pane con la marmellata. Quando feci la prima comunione mia madre mi mandò col vestito bianco a fare il giro dei parenti. Ricordo che tutti gli altri zii mi regalarono cento lire e, invece, i miei padrini me ne diedero duecento. Pieruccio, che adesso è morto, aveva dieci anni più di me; posso dire che devo a lui se ho sempre avuto la passione per la lettura. Dopo la promozione in seconda elementare, non mi regalò un libro? Le avventure di Pinocchio aveva molte figure ma io, in particolare, una ne ricordo, delle ultime pagine, con Pinocchio diventato ormai ragazzino che osserva il burattino a lui accanto e dice:-Com’ero buffo quand’ero burattino-. Se non era un incitamento ad essere a modo e a studiare...Ogni anno poi un libro in regalo e una dedica che cambiava di poco perché davvero era quasi sempre uguale alla prima-bravo, sempre così!- Seguirono infatti La capanna dello zio Tom, I tre moschettieri, Le avventure di Tom Sawyer...Poi fu il tempo degli esami per il passaggio alla scuola media. Fu lui a prepararmi per quegli esami. A parte lo studio del libro di testo, avevo da svolgere dei compiti aggiuntivi: un riassunto o un tema. Così una settimana mi dava da svolgere un tema, la settimana dopo dovevo fare un riassunto. E il riassunto era sempre di uno dei racconti del libro Cuore. Superati quegli esami, il libro in regalo fu I ragazzi della via Pal. Quando gli dicevo che mi aveva insegnato a leggere e a scrivere, cioè l’italiano, cioè, come diceva Sciascia,quali erano gli strumenti per ragionare, si metteva a ridere, diceva che il mio contributo alla faccenda era stato fondamentale, si vedeva però che era contento. Alla scuola media mi aiutò qualche volta per il latino, almeno agli inizi, poi, quando andavo a casa sua, era solo per visitarli. Lo zio Piddru morì e continuai ad andarci per la zia Peppina; visse ancora un paio di decenni fino a diventare davvero vecchia e anche sdentata. Pieruccio una volta disse che sua madre aveva una grande virtù cioè che mai le era venuto un mal di denti e che questi le cadevano senza che se ne accorgesse, magari li inghiottiva la notte, mentre dormiva.

5-La carne e i pesci.
Ci fu un tempo in cui mia madre ebbe in terrazza un pollaio. Ci fu un tempo in cui, forse contemporaneamente, allevò pure conigli. Così, di tanto in tanto, tirò il collo a una gallina vecchia o fece scuoiare un coniglio a papà. Una volta a settimana mia madre mi mandava dal macellaio per comprare, se gli era rimasto, un campanarieddru. L’avrebbe cucinato in padella, tagliato a pezzetti; la padella si riempiva e anche la pancia di quelli a cui piaceva. Io non ne andavo matto e riuscivo a mangiare soltanto qualche pezzetto di fegato. Il padrone della macelleria, se non aveva clienti, stava sull’uscio della bottega; teneva a un fianco, sotto la cintura dei pantaloni, un angolo d’una mappina a quadretti bianchi e rossi. Gli serviva per cacciare le mosche da quelle frattaglie penzolanti sospese ad un uncino. La carne vera, dico la fetta di vitello mpanata e cuotta sulla brace della fornacella , si mangiava solo la domenica e le feste comandate. Ma c’era un piatto povero che, a differenza delle frattaglie, mi piaceva; un piatto poverissimo, come lo era, di sicuro, l’uomo che, salendo a piedi da Porticello, veniva a gridarlo in paese. -A fritturieddra ruci- gridava; in un braccio portava un paniere con pesci, ghiaccio e alghe, nell’altro una bilancia di rame e andava scalzo. Pareva per questo che camminasse saltellando o magari saltellava davvero. Vendeva dei pesci talmente piccoli che, nell’olio bollente della padella, si squagliavano. Pure, là in mezzo, si potevano trovare seppioline o polpi piccolissimi o gamberetti o piccoli granchi. Un miscuglio dolce, appunto! Ricordo che quell’uomo era irascibile e tocco di cervello. Lo sentivano gridare la sua merce fino a notte. Mangiavamo in una piccola tavola appoggiata ad una parete della cucina, sotto una lampadina che la illuminava. Ai due capi di quella tavola sedevano mio padre e mia madre; mia sorella ed io stavamo accanto nel lato libero. La domenica si apriva una bottiglia di passito. Io ne bevevo più di tutti fino a farmi ogni volta rimproverare. In estate si tagliava il mellone rosso e finiva come per il passito. Mangiare nella stanza da pranzo era un fatto eccezionale. Quella volta mia sorella si era fidanzata ed erano seguiti inviti reciproci delle famiglie. Lei aveva un debole per le divise e il fidanzato, che pure era bellissimo, era entrato nella guardia di finanza. Mia madre preparò sucu ri sasizzieddri fatto con la conserva, c’astrattu, e c’era da leccarsi i baffi. Sulla tavola venne sistemata la tovaglia bianca ricamata. La vetriata era aperta e dalla stanza da pranzo si passò in salotto. Fu tutto traffico perso. Lui era bello e disonesto e fu cacciato dalla guardia di finanza. Mia sorella poi sposò un appuntato dei carabinieri.

Biagio Napoli

Biagio Napoli

Dicembre 2016.

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