Biciclette - I, II

Biciclette - I, II

cultura
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Bnews ha deciso di dar vita ad un nuovo spazio dedicato all'estro di quanti di voi coltivano la passione per la scrittura, e quindi per la lettura.
Sarà una rubrica che ci piace pensare come “alcova” di fantasie e segreti rapimenti dell'animo, una finestra aperta sugli spazi infiniti dell'immaginazione.

Raccoglieremo scritti, prevalentemente inediti, di autori contemporanei legati al nostro territorio, che per le svariate combinazioni della vita hanno intrecciato, in qualche maniera, i loro destini a quello della nostra terra.

Nessun titolo per questa rubrica, ma soltanto un’icona, un’immagine che richiamerà alla memoria tutto ciò che questo spazio vuole diventare, e che per i nostri lettori sarà: il titolo reciterà, di volta in volta, il desiderio di chi scrive.

Buona lettura...

Redazione Bnews


 

 

Biciclette I- di Biagio Napoli

 

 

 


1.

19.01.2007

Vita normale. Camminare e fare giardinaggio. Non sollevare o trasportare pesi.
Queste le raccomandazioni alla dimissione. Camminare. Non sollevare o trasportare roba pesante.

Bene fin qui!

Fare giardinaggio. E dove? Nel balcone di casa? In campagna?
In campagna non si fa giardinaggio. Uno, se va in campagna, si fa un coso così. O non ci va. Che ne sanno loro.

Stamattina ho deciso di camminare e di andare in campagna. Per la verità non potevo fare altrimenti.
Una settimana fa mi hanno rubato la macchina: la sera la posteggio davanti casa, la mattina apro la porta e non la vedo, non c’è. Così, in campagna, non potevo che andarci a piedi.

In campagna, in contrada De Spuches, da casa mia ci vogliono venti minuti per arrivarci; ora lo so, perché ho guardato l’orologio sia prima di incamminarmi che all’arrivo. Per conoscere quanto tempo ci avrei messo.
Precisamente ci vogliono tredici minuti fino all’abbeveratoio e altri sette per percorrere a piedi il resto del vallone.

Giunto all’abbeveratoio mi sono fermato un poco a riposarmi; così mi sono reso conto di come è stato ridotto a forza di scaricare attorno ad esso materiale di risulta. I muretti, prima alti almeno un metro, adesso non si vedono più e anche l’interno è quasi interamente riempito; l’acqua va fuori e si fa strada in rivoli sulla terra.

L’abbeveratoio è ora una pozza sporca; attorno c’è fango ed erba alta.
E invece, tanti anni fa, andando al lavoro, a piedi o con i motori o con la bicicletta o col carretto, gli uomini si fermavano e riempivano i loro bummali. In essi l’acqua si manteneva fresca. Era molle quell’acqua; se ne poteva bere a litri.

Quando, da ragazzino, andavo in campagna in bicicletta, mi fermavo immancabilmente all’abbeveratoio e bevevo. Me ne andavo con la pancia gonfia. Per arrivare con la bocca dove l’acqua sgorgava, bisognava salire su delle pietre di tufo messe lì appositamente.

L’acqua che usciva era così tanta che bere significava lavarsi la faccia. Mi asciugavo con la mano.

Ora, di acqua, ne esce soltanto un filo. La gente riempie i secchi e lava le macchine, la domenica mattina.


Nel pomeriggio ho cercato qualcosa da leggere. Ho preso l’ultimo libro pubblicato dal mio amico Vincenzo Drago e da lui regalatomi. Un sonno senza sogni di Dacia Maraini. Un libro illustrato da alcuni pittori. Ho letto uno dei due racconti in esso contenuti, Gita in bicicletta a Mongerbino.

***

Biagio Napoli è un medico chirurgo che presta la propria attività presso il Reparto di Chirurgia Plastica e Ricostruttiva dell'Ospedale Civico "Fatebenefratelli" di Palermo.
Prima della laurea in Medicina ne aveva conseguita giovanissimo e brillantemente una in Lettere e Filosofia.
Ha 59 anni ed è sposato con tre figli: i nomi dei maschi Federico, in onore del filosofo Engels e Ruggero a ricordare il Re normanno, rimandano alle sue passioni giovanili, la storia e la filosofia.
Da sempre preso dalla letteratura, ha pubblicato qualche racconto sul periodico locale "Il Nuovo Paese".
Sta lavorando assieme a Mimmo Aiello a ricostruire una esperienza assolutamente unica e originale: la storia del Circolo "L'Incontro" a Bagheria.

continua...

***

Biciclette II - di Biagio Napoli

2.

20.01.2007

Alle due e un quarto mi sono svegliato e non ho più preso sonno; durante quel lungo dormiveglia, fino all’alba, il racconto che avevo letto mi si presentava alla mente con le sue illustrazioni e, insieme, si presentavano alla mia mente immagini del passato e biciclette. A villa San Giuliano, da ragazzino, volavo con la mia bicicletta verde attraverso le lunghe stradelle che percorrevano il giardino di limoni e di ulivi. Un pomeriggio feci una caduta rovinosa; cercando di rialzarmi, non potei più camminare e, invece, risalendo sulla bicicletta, potevo pedalare come se non avessi nulla.

Me ne tornai a casa e me ne stetti per alcune ore davanti al televisore senza dire niente.
Allora c’erano le olimpiadi a Roma, non avevo più di dodici anni. Ma non potevo stare seduto per sempre. Riprovai a camminare. Dapprima ebbi dolore; poi, improvvisamente e miracolosamente, le ossa dell’anca si misero a posto da sole.
Ma, prima di avere una bicicletta mia, per i miei lunghi giri prendevo quella di mio cugino Brasi.

Le case che circondano il palazzo di villa San Giuliano erano abitate dagli zii e dai miei cugini; in giardino ci si andava attraverso una stanza adibita a passaggio. Là mio cugino Brasi ci teneva una bicicletta nera. Se andavo a villa San Giuliano, senza farmi vedere prendevo quella bicicletta, mi sfogavo a correre, la rimettevo al suo posto. Brasi raccontò a mio padre questa storia e gli disse di comprarmi una bicicletta. Gli disse che doveva essere molto forte il mio desiderio di avere una bicicletta. Mio padre gli disse che, prima o poi, una bicicletta me la comprava.

Lo zio Pinè aveva la sua bottega a Santa Flavia, vicino alla stazione ferroviaria. Riparava le camere d’aria e costruiva biciclette. Diceva che da giovane era stato un campione. Da vecchio me lo ricordo malato. Continuava a stare nella sua bottega; dai pantaloni gli usciva un tubicino collegato ad un sacchetto per le urine: portava un catetere a permanenza.

Le biciclette le riparava un giovane che, alla sua morte, la bottega la chiuse per cercarsi un altro lavoro. Da noi è vita grama quella di chi lavora con le biciclette. In bicicletta ci vanno solo i bambini, per gioco. Non si vedono biciclette con i grandi in sella. Da ragazzino ho avuto una bicicletta. La prima e unica bicicletta che io ho avuto, me la costruì lo zio Pinè. Col portabagagli dietro. Quel portabagagli l’aveva voluto mia madre. In terrazza avevamo un pollaio; in un altro angolo della terrazza mia madre allevava conigli. Quando puliva, raccoglieva il concime dentro un sacco, mi diceva di legarlo al portabagagli della bicicletta e di portarlo in campagna.

-Vai a spargerlo in una conca, sotto un limone- mi diceva.
Andavo in campagna, mi fermavo all’abbeveratoio per bere, concimavo un albero. Quella bicicletta, allora, zio Pinè se la pagò venticinquemila lire, una spesa grossa davvero per quei tempi. Quando non la usai più, la sospesero su un chiodo, nel casalino; un giorno non la vidi più. Mia madre l’aveva venduta a un ferrivecchi ambulante.

Quando il tempo era buono, e le giornate cominciavano ad allungarsi, ma soprattutto d’estate, andavo in bicicletta a villa San Giuliano a correre nelle lunghissime stradelle. In estate c’era un giorno in cui si faceva la conserva di pomodoro. Quello era per me un giorno speciale, un giorno intero di corse in bicicletta.

La stanza del passaggio dava in uno spiazzo molto largo davanti alla chiesa del palazzo. C’era un pino altissimo. A terra era pieno di pinoli. Li raccoglievo e li schiacciavo con una pietra. O correvo in bicicletta o mangiavo pinoli schiacciandoli con una pietra.

Mio padre, di mattina presto, andava a raccogliere nel suo orto il pomodoro maturo. Con una cesta sulle spalle per volta, faceva più di un viaggio dall’orto allo spiazzo davanti la chiesa. Poi spremeva il pomodoro con le sue mani. Mia madre e mia sorella, più grande di me di dieci anni, con i crivi stendevano il succo rosso sulle tavole stese al sole. Poi era tutto lavoro delle loro dita. Man mano che il sole quel succo lo asciugava, lo “stringevano”, lo mettevano cioè in un numero sempre minore di tavole, finchè non riempiva che una sola tavola. A quel punto era fatta, ma c’era voluta una giornata intera. Mio padre lavava le tavole. Le donne avevano le facce rosse come i pomodori.

Una volta che facemmo la conserva di pomodoro, mentre mangiavamo all’ombra su un sedile di tufo, arrivò mio cugino Brasi. Era agitatissimo e pallido. Disse che c’era un morto ammazzato, al muro di cinta, presso i fichidindia. Passando vicino, ne aveva sentito il fetore ed era andato a vedere. Mio padre disse che bisognava andare dagli sbirri . E senza perder tempo, anzi!

Mio padre disse a Brasi di andare in caserma, dal maresciallo. Si allontanò con lui per non continuare a parlare di quelle cose in mezzo alle donne e a me, ragazzino. Ma io inforcai la bicicletta e, di corsa, andai presso i fichidindia.
Lasciai la bicicletta dove la stradella finiva e andai a piedi. Mi guidava il fetore che diveniva sempre più intenso man mano che mi avvicinavo al morto. Ma non ci fu bisogno di avvicinarmi molto. L’avevano buttato da fuori, dal muro di cinta, su un ficodindia le cui pale si erano rotte e ora erano sparse per terra, una sull’altra. Il morto penzolava a testa in giù sui tronchi duri del ficodindia.

Aveva in faccia un buco enorme che gli aveva cancellato il naso e la bocca. Dentro quel buco c’erano un mucchio di grosse mosche. Pareva fosse stato giovane. Lo era. Era Masiddru, il ladro. Dopo l’inchiesta si disse che la mafia e aveva avuto abbastanza di lui e se ne era liberata.





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