Bagheria come un’infanzia (25) - di Biagio Napoli

Bagheria come un’infanzia (25) - di Biagio Napoli

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Li incontrò una mattina a Batia e regalò loro La paglia bruciata, da poco stampato, dedicandoglielo: a B. e  C. oggi ziti e dumani maritati chi picciriddi chi ghiocanu nta casa. Accanto alla dedica disegnò forse un  aquilone. Rivedendo a volte quel disegno lo rassomigliano però ad uno spermatozoo.

Due erano cugini e avevano lo stesso nome e cognome. Sicuro non quello che Tornatore gli ha dato in  Baaria. Non Carru Minà. Vero è però che li chiamavano u ruossu uno e u nicu l’altro. Una distinzione in  cui l’età non c’entrava e che era dovuta invece alla diversa importanza che avevano. Perché il primo era un  mammasantissima mentre il secondo viveva alla sua ombra. Erano diversi anche fisicamente. Perché il  primo era alto, sempre elegantemente vestito, un beddru cistianu, mentre l’altro era basso, tarchiato. Questo morì nel suo letto, l’altro ammazzato a colpi di pistola in testa, una mattina, per strada, puru ca,  ormai, era un vecchiu d’ottant’anni.

Uno raccontava sempre di essere cresciuto senza padre. Il più grande dei fratelli ( erano sette ), appena un  ragazzo, gli aveva gridato di andarsene o lo gettava giù dal balcone. Così il padre se ne andò. La sera,  quand’era ubriaco, e lo era il più delle volte, picchiava la povera moglie. Di non avere avuto quel padre però
non se ne crucciava.

Uno era molto basso di statura; poiché era fratello del sindaco lo soprannominarono u sinnachicchiu.

Una, gravida, la chiamarono a pupu cu l’ovu. Partorì ma il soprannome le restò per sempre.

Unu rava picciuli e frutti. Mortificava quelli a cui aveva prestato soldi andandosi a mettere davanti le loro porte per ricordargli debiti e scadenze. Morì. Figli e nipoti ebbero guai chi coffi. Pi tutti l’astimi che gli  avevano mandato. Così diceva la gente.

Uno aveva perso la testa per una studentessa bionda, piccola e graziosa, senza essere ricambiato. Sa fuju. Però neanche così se lo prese. E si sposò poi con chi disse lei.

E ci fu un luogo ( e un tempo ) in cui le questioni d’onore si andavano a regolare a colpi di coltello: o Furriatu.

-Ahi!- si sentiva spesso nel buio della sala e qualcuno che rideva. Perché tante che andavano al cinema, si  munivano di spingoloni per pungere quelli che avevano le mani lunghe.

E raccontavano di un certo Schirinni ( era un soprannome ? ) che visse al tempo di Pietro Lanza e fu  addirittura più povero. Non avrebbe avuto, come l’altro, né gloria letteraria né cinematografica e morì  solo. Lo misero dentro quattro tavole d’abete e nessuno lo accompagnò al camposanto. Dormiva sotto  l’arco. Al mattino, quando si svegliava, si recava ai gabinetti pubblici. Poi si metteva davanti l’Aurora a  chiedere l’elemosina. Comprava quindi una mafalda nella rivendita di pane all’angolo e poi andava in via  Pittalà, dal panellaro, e quella mafalda la faceva riempire di panelle. In piazza, seduto sulla fontana, la  mangiava. Ma, se c’era uno come lui, il pane lo spartiva.

Mimmo Pintacuda, fotografo e, per campare, operatore di proiezione per quasi trent’anni, dal 1954 cioè  al 1983, sapeva un mucchio di cose sui cinematografi e le raccontava. Per esempio che l’ultimo film fatto al  Nazionale fu Kaos. Glielo disse Filippo Lo Medico parlandogli dell’ultimo manifesto da lui raccolto, quello  dipinto da Guttuso per i fratelli Taviani. Non gli constava personalmente perché era già in pensione quando  il Nazionale, nell’84, chiuse.

E ci fu un tempo in cui spesso mancava la corrente elettrica e i film, anche se di richiamo, a vederli non ci  andava nessuno. Lo stesso se c’era una grande festa, religiosa come la Pasqua, o laica come quella di San  Giuseppe, in estate, perché per la gente veniva il momento di comprarsi un vestito nuovo e se ne andava a
passeggio nello Stradonello e aveva stu pinsieri di recarsi al cinema. Così era come se quel film non ml’avessero mai fatto. Giuseppe Tornatore teneva un quaderno in cui segnava i film che si andavano mprogrammando, le loro caratteristiche, soprattutto se c’era stata una particolare folla o se la sala era  rimasta vuota. Lo diceva Gabriele Pampinella, proprietario di cinematografi. Quando Tornatore lavorò per lui, poteva dirgli quanta gente un film, già fatto prima, avrebbe richiamato al botteghino .

Ma ancora c’era chi, prima di andare al cinema, passava dalla chiesa del Sepolcro dove, all’ingresso, una  bacheca giudicava e segnalava le pellicole da vedere. Per costoro magari ci sarebbe voluto un altro  monsignor Buttitta, un nuovo cinema Parrocchiale. Ma non era più tempo, ormai.

Ai tempi del Parrocchiale di padre Buttitta, c’era un altro parrino che faceva il cinema . U paracu ri  San Pietru. Prima lo fece in sacrestia. Poi si trasferì in un locale di fronte alla chiesa . Nne Spijdi. Vi si  scendeva attraverso degli scalini molto ripidi. Io ero chierichetto allora, era il 1945 e avevo tredici  anni. Ricordo che mi mettevo dietro la tenda e afferravo i picciriddri che entravano o, altrimenti, col buio sicuru ddrassutta scuppavanu . ( Placido Ferrara, proiezionista )

Un altro arruso dichiarato, al tempo della grande crisi, quando rimasero aperte soltanto le sale a luci rosse, andava al cinema per infilarsi nella toilette dietro al primo spettatore che vi si recava. Che zuffe per  accaparrarselo quelle volte che veniva al cinema anche un professore palermitano, arruso anche lui.

Uno faceva il corniciaio e possedeva una tela che raffigura un soldato romano. Tiene con la mano destra una croce con la scritta odie e col piede dello stesso lato calpesta un corvo che grida cras. La mano sinistra ha un ramo di palma, per terra un elmo, sullo sfondo una cupola. E’ l’iconografia di santo Espedito, converso e martire, protettore, si dice, dei fidanzati tanto che proprio le ragazze dicevano, pregandolo:  santu Spirìtu, livaticci a fuoza a mè patri e raticcilla o mè zitu. Ma è un lavoro di fattura non perfetta, primitivo, dove i colori però rimandano, magari per il soggetto, a quelli utilizzati per la pittura dei carretti.  Prevale il rosso dell’ampio mantello. E l’autore non è forse il capostipite di una famiglia che questo lavoro  fece e continua a fare? Ecco la firma: Ducato M.le al 1902/19/9. Un corniciaio quel dipinto lo ha tolto alla polvere della sua bottega vendendomelo. Posso confrontarlo con  una stampa antica di santo Espedito che io posseggo e che mostra qualche differenza. Per esempio, a terra  oltre l’elmo c’è la spada, gettata via per impugnare la croce, sullo sfondo c’è un arco e quell’odie è correttamente scritto con l’h davanti.

Uno fu Cesare Zavattini che, ovviamente, non era di Bagheria. Aveva una casa a Roma piena di quadri  grandi quanto una cartolina. Li chiedeva ad ogni pittore e a tutti li pagava cinquemila lire. Tutti glieli  dipingevano. Desiderò averne due dipinti dai Ducato che aveva conosciuto per l’articolo che su di loro  aveva pubblicato Guttuso su Vie Nuove. Glieli commissionò. Uno doveva essere una scena di carretto, l’altro l’autoritratto di uno dei fratelli. Ficiru sti quatri e ci mannaru. Inviò un vaglia di diecimila lire. Gli  erano piaciuti, scriveva. Ringraziava e prometteva una visita a Bagheria per salutarli e salutare quanti a  Bagheria conosceva.

Un Oreste. Comparve un giorno, in autostrada, in quel grande poster-manifesto delle rappresentazioni  classiche di Siracusa! E’ il 2008,l’anno dell’Orestea di Eschilo, e un volto misterioso ed inquietante, che  sembra mediorientale, iracheno o palestinese, simboleggia un moderno Oreste. Ma è il nostro amico  Michele, fotografato nel 1962, a 21 anni, dal suo allora diciannovenne amico Ferdinando Scianna, ora  mostrato in tutte le città siciliane. Quel volto magnetico era già presente in Quelli di Bagheria,  a pag. 100, nel 2002. Poi Michele è morto e, a distanza di un anno, si stampa un piccolo libro ricordo ( Due  o tre cose che sappiamo di Michele Toia ) che contiene anche delle fotografie e una, davvero bella, ritrae i  due amici giovanissimi, il futuro Oreste siciliano cioè e il suo fotografo, che danzano volteggiando tra le  tavole dei bagni Scardina, ad Aspra.

Uno fuori riga. Si definiva un comunista eretico. A differenza degli altri della sezione, per i quali era una cosa strumentale e sotto sotto volevano soltanto fare proselitismo, aveva creduto veramente nel dialogo con i cattolici. E diceva che l’appoggio dato agli abusivi li sputtanava davanti all’opinione della gente più
avvertita, di quella più sensibile ed era becero e populista. Quell’eretico era ancora il mio amico Michele Toia cui piaceva scherzare sulle parole e falò diventava foulard. Così i suoi compagni gli consigliavano di non  andarci nei foulard degli abusivi o,conoscendo le sue idee, lo avrebbero picchiato.

Un affabulatore. Siamo negli anni ’50, a Collesano. Quattro amici, amanti dell’opera lirica, gente  appassionata ed esigente, avevano l’abbonamento al teatro Massimo. Così, quando c’era una  rappresentazione, affittavano l’unica 1.400 che c’era in quel paese, si recavano a Palermo, e l’autista li  aspettava fino al termine dello spettacolo .Non c’era ancora l’autostrada, perciò partivano presto,  s’arricampavanu tajdu. Un giorno partirono per andare a vedere il Sigfrido. In edizione originale,  naturalmente. In tedesco. Pare che, quella volta, non sapessero che fosse proprio quella l’opera in cartellone. Durante gli intervalli andavano alla buvette. Nessun commento. Occhi bassi, affruntusi, e  silenzio .E nessuno parlò neppure alla fine, quando si rimisero in macchina, durante quel lungo tragitto di  ritorno. Arrivaru finalmente a Collesano. Solo allora uno disse: -E nni vittimu u Sigfridu!- Ognuno poi andò  per i fatti suoi. Non si videro più. A lui questa storia l’avevano raccontata, Michele si divertiva a raccontarla.

Una fece un voto alla Madonna di Pompei e il marito ebbe molto da ridire potendo ella scegliere tra Santa  Rosalia a Palermo, la Madonna della Milicia o, se proprio voleva andare lontano, quella nera di Tindari o  delle lacrime di Siracusa. Una si recò dunque a Pompei e, trovandosi là, volle visitare le rovine. Il marito le  disse: -Ma dove mi hai portato? Ne ho già viste tante in campagna casuzze sdirrubbate!-

Uno era campestro. Ai ladruncoli di campagna che finivano nelle sue mani, una fracchiata di legnate non  gliela levava nessuno. Poi li mandava via. Non ci andavano più a rubare nei giardini di cui era guardiano.

Una era nata un 7 di giugno. Sua madre, già da ragazzina, il compleanno cominciò a non festeggiarglielo più.  Da quando un altro 7 di giugno le era morto il figlio più piccolo. Dopo nemmeno lei volle mai festeggiarsi. Diceva d’aver paura d’una punizione. Di morire. E rifiutò anche la festa dei suoi novant’anni.

Uno era Lillo Rizzo, che aveva frequentato l’Accademia delle Belle Arti, e si trovava, quando l’ho conosciuto,  in pieno periodo di appassionata ricerca e sperimentazione. Disegnava su lucidi per eliografia le locandine  per il cineclub di Giuseppe Tornatore; comprava riviste di fumetti, più di una, Il mago, Eureka, Alter Linus,  Alter Alter, e disegnava fumetti; dipingeva omaggi ( a Ensor, Picasso…). Poi ci fu un momento in cui  cominciò a dipingere su delle porte. Gli prestava lo studio Enza La Tona e vi si andava dal vicolo Nasta, sul  corso Umberto. Era uno stanzone privo di bagno. Rideva dicendo che era stato costretto a munirsi di un  gabinetto chimico.

Del piacere di fare un giornale. Uno era Vincenzo Drago ed io ho una copia di quasi tutti i numeri dei  giornali che fece stampare. Per anni, forse dal 1998 e fino al 2016, il suo giornale si chiamò Il Nuovo Paese  ed era un elegante volumetto tascabile di politica ( locale ) e mafiologia, più rivista che giornale. Andiamo a  ritroso. Stavolta troviamo Il Paese . A me, quei numeri usciti dal 1982 al 1985, piacciono di più. Sono  infatti impreziositi dall’arancione della testata e di numerosi titoli, dalle vignette umoristiche di Lillo Rizzo,  da alcuni inediti di Ignazio Buttitta, dalle foto di Mimmo Pintacuda e Ferdinando Scianna, dagli studi storici  di Giuseppe Speciale e di Nino Morreale. Figurarsi che ci si trova anche un racconto di Natale Tedesco.  Andando ancora indietro arriviamo al 1970 con un numero speciale di SICILIA I MOSTRI preceduto, l’anno  prima, da un numero unico con la stessa testata e, nel ’68, da altri due numeri unici cui collaborò Carlo  Doglio quando abitò a Bagheria un appartamento a metà del corso Butera pieno di scaffalature metalliche  colme di giornali. Scrisse due lunghi articoli per I MOSTRI ( Il cancro rode a Bagheria ) e per MOSTRI. DUE  (Parole a Bagheria e i fatti ? ). A rileggerli ora si capisce come Bagheria sia rimasta quell’irredimibile paesaccio che era.

Dell’impossibilità di mettere un punto. Faceva giornali e, da un certo momento in poi, cominciò a  frequentare l’Archivio di Stato di Palermo. Poiché non aveva mai guidato un’auto, o gli davano un passaggio o prendeva l’autobus. Raccolse una infinità di documenti sulla mafia dei primi del Novecento, sul brigante  Galioto, sul prefetto di ferro e il 1926. Doveva fermarsi una buona volta e dare forma a tutto quel  materiale. E invece continuò a cercare. Finchè non ebbe più tempo a disposizione. Ci sarà qualcuno capace  di leggere tra le sue carte?

Della coerenza. Quando morì, la cerimonia funebre si svolse non in chiesa ma all’ingresso del cimitero e,  invece della predica di un sacerdote, ascoltammo un breve ricordo di due dei suoi amici più cari. Dopo una  vita da laico alla sua morte le cose andarono perciò così.

Biagio Napoli

( ottobre 2017 )

 

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