Corso Umberto - di Giusi Buttitta

Corso Umberto - di Giusi Buttitta

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LA  BARRICATA– Entriamo subito a gamba tesa, senza fronzoli e premesse, sull’argomento su cui si stanno dividendo i bagheresi (e questo è un merito; quantomeno, ogni tanto, segue dibattito…). Allora, con la diplomazia che l’argomento merita, dico che, a primo acchito, l’idea di riaprire al transito automobilistico il Corso potrebbe essere una boiata pazzesca. La butto lì, parafrasando Paolo Villaggio ne Il Secondo Tragico Fantozzi. All’affermazione di Fantozzi seguirono 92 minuti di applausi da parte dei colleghi. Sono certa che tutti i cittadini contrari alla riapertura, leggendo questa frase, non dico stiano applaudendo, ma annuendo in segno di condivisione, sì. Però, non è così semplice, perché se ci spostiamo e ci collochiamo su un altro punto di osservazione, forse, non è proprio una boiata, potrebbe essere la cosa giusta, la più funzionale, la più logica, perché all’interno di questa questione di ordine prettamente pratico, si contrappongono due visioni delle cose: la Bagheria ideale e la Bagheria reale. 

Se, e sottolineo se, Bagheria fosse un posto con una forte e naturale inclinazione alla civiltà, allora le cose andrebbero così: si trasformerebbe Corso Umberto nel salotto buono della cittadina, lo si abbellirebbe, spunterebbero le piante, le fioriere, sparirebbero quei discutibili arredi (tavolini, sedie) di plastica (bianco ospedale o verde angoscia, colori che esposti al sole e alla polvere assumono quella tipica tonalità detta “degrado imperante”) dei bar, sarebbero sostituiti da arredi in ferro battuto, smaltati in colori allegria, nascerebbero angoli con panchine dalle linee aggraziate, aree di sosta lungo il percorso, pub dove la sera si ascolterebbe musica dal vivo, poi ci sarebbero ordinanze comunali che obbligherebbero i proprietari dei locali commerciali sfitti a mantenere un decoro e non a mostrare al mondo un senso di abbandono, di vuoto, di assenza di vita (quell’aria di smobilitazione, fatta di cartellonistica strappata ancora attaccata ai vetri, nastri adesivi penzolanti, polvere, cartacce). 

Coprire, per favore (attività chiuse da anni; non si comprende per quale motivo l’attività non esiste più e la cittadinanza deve essere obbligata a gettare uno sguardo sui resti della tua smobilitazione). Vado avanti, se a Bagheria la civiltà avesse cittadinanza (anche onoraria), allora, i locali comunali del salotto buono sarebbero affidati ad associazioni culturali, ad associazioni giovanili, che avrebbero il compito di fare da supporto ai visitatori, e poi sorgerebbero lungo il Corso almeno due gazebo architettonicamente integrati dove all’interno le stesse associazioni prima citate promuoverebbero le bellezze che ci circondano (nella Bagheria ideale, anche quello che ci circonda sarebbe curato).

E non solo, se il demone della civiltà si impossessasse di noi, l’amministrazione si preoccuperebbe di varare un programma di manifestazioni (e non solo sagre dello sfincione) culturali, musicali, cinematografiche. Portiamo la musica classica dentro le ville. Per esempio, immaginate una manifestazione di questo tipo d’estate, e poi pensate ad un’amministrazione che concede agevolazioni fiscali a chi apre una libreria lungo il Corso, o un ristorantino slow food che promuove i prodotti del territorio. E poi il cinema, la letteratura, la fotografia, la pittura. Bagheria ha la fortuna di avere tanti personaggi di spicco le cui radici affondano in questo territorio, Tornatore, Scianna, Maraini, Guttuso (solo per citare i personaggi simbolo, ma sotto, in ogni ambito, c’è ancora ricchezza da armonizzare per farne discorso progettuale, proposta culturale), nascerebbero piccoli festival; ci sono paesi in Italia, amministrazioni da cinquemila cittadini, che riescono ad organizzare festival cinematografici, portano i personaggi noti, giocano a fare i glamour e ci riescono, fanno accendere i riflettori. Da noi sembra impensabile. Occorrerebbe continuità, cura, attenzione, idee, promozione del territorio. Bisognerebbe fare di Bagheria un posto bello (valorizzandolo) e per farlo potrebbe essere importante trasformare Corso Umberto nel suo cuore pulsante. L’idea è far arrivare gente da fuori per farci conoscere e il tipo di persone che ti porti a casa dipende dall’immagine che offri.

Tutte le carte che avevamo le abbiamo strappate e gettate al vento (quante cittadine possono vantare un Baarìa girato da un premio Oscar nativo della stessa cittadina?). Il Corso chiuso è uno spartiacque, che ha senso mantenere ad una condizione, che lo si valorizzi. Oggi è un posto spesso lurido, triste, dove pesa un senso di abbandono. Poi, c’è la Bagheria reale. Quelli del “se, vabbé… ma, finiscila… le fioriere…”. E non avrebbero torto, perché quelli ti prefigurano scenari con fioriere rovesciate, panchine divelte, sporcizia dappertutto, quasi sicuramente hanno ragione. A Bagheria, il salotto buono non sa da fare perché lo distruggerebbero in 48 ore, questo ti dicono i realisti. Il problema è l’approccio al problema. Il Corso non è, né dovrebbe diventare, un abbozzo di centro commerciale. Semmai, è proprio il contrario, se il Corso diventa un posto gradevole, vivibile, dove è piacevole stare, arriverà la gente e se arriva la gente ci saranno imprenditori che avranno tutto l’interesse ad avviare attività commerciali, magari di stampo diverso di quelle che ci sono attualmente. Perché intorno alla questione del Corso si decide dove Bagheria vuole andare. Alto profilo o il lento degrado della periferia? Perché se la Bagheria ideale non è realizzabile, un sano senso di realismo mi porta a dire, riapriamolo pure il Corso, facciamoci passare le auto, anche la domenica, basta chiusure, anzi, vi dirò di più, demoliamo i marciapiedi che hanno ristretto la carreggiata, non hanno più senso.

Chi sostiene che oggi il Corso è un posto angosciante, ha ragione. È sporco, è triste, è svuotato, è un suk di cianfrusaglie, il trionfo del low-cost, non c’è eleganza, non c’è gradevolezza, un’atmosfera volgarotta e dozzinale regna sovrana. Che senso ha tenere il traffico chiuso per garantire questo spazio disperato? Un senso, in verità, lo avrebbe, farebbe da promemoria e da specchio tra quello che potevamo essere e non siamo riusciti a realizzare. Quindi, volendo essere pratici, questo Corso chiuso, in queste condizioni, a chi giova? Ora siamo ad un bivio, o si fa un enorme salto di qualità o ci si arrende, consci che un’anima vandalica e autodistruttiva che soffia sul nostro vivere come uno scirocco malefico potrebbe rovesciare sin da subito ogni costruzione portata avanti con le migliori intenzioni.

Sicuramente, da Patrizio Cinque, mi sarei aspettata una visione un po’ più alta, considerando le premesse e le parole, mi attendevo una “rivoluzione culturale” e non i piccoli, e di retroguardia, adattamenti per tutelare presunti interessi di bottega (tesi che nessun dato statistico di causa-effetto le supporti, ma solo un’empirica evidenza). Non è di questi provvedimenti democristiani che Bagheria ha bisogno. Questa è transizione, pezza su pezza. Bagheria ha bisogno di un aut-aut o dentro o fuori. Niente stalli. Un Corso aperto, anche per un tempo parziale, significa che del Corso non se ne vuole fare nulla di meglio di quello che già è, allora lo sia apra completamente, sempre, anche perché i marciapiedi ora sono abbastanza ampi da permettere il transito dei pedoni. Se la prospettiva è un luogo degradato aperto a fasce orarie, è meglio farci passare sopra una fila di auto e non se ne parli più. In sintesi, così com’è il Corso è una pena, quindi, o si ha la forza e la capacità di farne qualcosa di meglio (e non sembra ci siano i presupposti), oppure eliminiamo come spazio mentale, come luogo di aggregazione e avvolgiamolo in una nuvola di gas di scarico. Quanto meno, decongestioniamo un po’ il traffico. Il Corso chiuso, per certi aspetti, è un costo da pagare, ma se è questo quello che se ne riceve in cambio, allora non ne vale la pena.

IL  PESO  DEI  SIMBOLI – A Bagheria c’è un monumento che è un inno al fallimento, al vorrei ma non posso (un po’ quello che è successo con Monte Catalfano), all’incapacità di trasformare un progetto in realizzazione. Un inno all’aborto. Mi riferisco a quella (oggettivamente orrenda) fontana circolare che, all’altezza di Piazza Palagonia, si frappone tra il Bar Don Gino e il distributore di carburante. Se qualcuno ne spiegasse la presenza la popolazione ringrazierebbe, perché messa lì, in discontinuità con la passeggiata del Corso, non ha nessun senso; ma la vera aggravante è che la fontana bagherese non ha mai zampillato (almeno, io non ne sono mai stata testimone) un solo getto d’acqua. La Fontana Arida (nuovo nome di battesimo) con i suoi otto dispositivi centrali intristiti nell’attesa di schizzare e con tutti gli altri (più piccoli) dispositivi disposti a cerchio come damigelle rinsecchite durante un ballo di zombies, si è trasformata in un grande contenitore dentro il quale far confluire schifezze indifferenziate. Aridità di fatto e aridità di idee. Considerando che oggi Bagheria è amministrata da un movimento che ha mosso i suoi primi passi dal Vaffa Day, sarei tentata di lanciare un Vaffa a questa Bagheria incapace di cambiare. È curioso come i cerchi, prima o poi, si chiudano.

AVVERTENZA – Non so se, quando e in quale forma tornerò ad occuparmi di questa rubrica (devo pensarci). Mi rendo conto che, al di là della questione di turno, ci si va ad arenare sempre sulle stesse constatazioni intrise di una rassegnata immutabilità. Di fronte a questo scenario, questa rubrica rischia di trasformarsi in uno stucchevole, e un po’ inutile, esercizio di ripetitività.

La frase – “Io ho bisogno di credere che qualcosa di straordinario sia possibile.” (Dal film: A BEAUTIFUL MIND)

Giusi Buttitta

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