Quando c'erano Coppi e Bartali - di Giusi Buttitta

Quando c'erano Coppi e Bartali - di Giusi Buttitta

senza zucchero
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BASTARDI  DENTRO – Quanta strada nei miei sandali, quanta ne avrà fatta Bartali. 4 Luglio 1952, Tour de France, è la tappa che da Losanna conduce all’Alpe d’Huez, Coppi e Bartali stanno affrontando il passo del Galibier, un fotografo, Carlo Martini, che lavorava per l’Omega Fotocronache, immortala i due mentre si passano una bottiglia. Gli acerrimi rivali, due simboli dell’Italia del dopoguerra, identificati (un po’ forzatamente) nel democristiano Bartali e nel comunista Coppi, per attribuire alla sfida un risvolto politico ed ideologico, si soccorrono. Sono rivali, non nemici. È lo spirito dell’Italia del dopoguerra che deve ripartire, si deve ricostruire, è l’immagine di un’Italia bonaria, forse semplice, ma consapevole che le divisioni fino all’odio reciproco e trasversale non servono, gli italiani sanno che la salvezza dell’uno non sta nella fine dell’altro, sanno che al di là delle divisioni la comunità non abbandona il singolo, nemmeno se è un tuo rivale. La mutualità che si contrappone alla selezione naturale.

Torino, 5 Ottobre 2014, allo Juventus Stadium si sfidano Roma e Juventus. Partita di cartello, si confrontano le due squadre più forti del campionato. La partita (apprendo dalle cronache dei giornali) è segnata da almeno cinque episodi controversi che l’arbitro dirime così: due a favore della Roma e tre a favore della Juve (mi fido di quello che ho letto). Comincia il Far West, prima in campo, poi fuori. A caldo, Totti, simbolo della Roma e di Roma, dice chiaramente che il campionato è falsato, come del resto i precedenti, e che finché ci sarà la Juve loro potranno arrivare solo secondi (quando si dice il far play e cultura della sconfitta), a Totti risponde la moglie di Andrea Agnelli, Emma Winter, lo fa via twitter “I wish Totti would go and play in his own League” (in inglese, chissà perché, forse fa più figo). Insomma, cortile. C’era una volta la classe sabauda della famiglia Agnelli. C’era l’ironia sottile di Gianni, l’aplomb di Umberto. E fin qui siamo nell’ambito, seppur con qualche sconfinamento, del territorio calcistico. Ma, arriva il giorno dopo e lo sconforto aumenta. A dismisura. L’Italia sta attraversando uno dei suoi momenti più difficili sia da un punto di vista sociale che economico, la politica la si immagina impegnatissima a cercare una via per uscirne. Ebbene, ecco cosa avviene il giorno dopo di Juve-Roma.

Prendo dai giornali: “Esposto in Consob per gli errori arbitrali di Juventus-Roma, L’iniziativa è firmata dal deputato del Pd, Marco Miccoli” (il Miccoli, ha ritenuto indispensabile, oltre all’esposto, anche un’interrogazione parlamentare – mi chiedo se il PCI di Berlinguer avrebbe tollerato un Miccoli o lo avrebbe espulso immediatamente); l’alfaniana Saltamartini: “Juventus-Roma miglior giocatore in campo per la Juve è l’arbitro Rocchi”; Paolo Cento (Sel) “Juventus-Roma è un fatto di civiltà che la magistratura ordinaria possa occuparsi del calcio se ci sono fatti da analizzare” (un fatto di civiltà? La magistratura?); Maurizio Gasparri (la sua stessa presenza in parlamento, assieme a quella di altri veterani, è la dimostrazione che l’uso della parola “cambiamento” è, nel nostro caso, fuori luogo; esercizio di illusionismo), indignatissimo, in risposta al giornalista che chiede se non è il caso di occuparsi di questioni un tantino più serie di un arbitraggio di una partita di calcio, risponde “Il calcio non è un problema secondario. Il calcio è un evento che ha un impatto non solo economico ma anche sociale. La cosa da rifiutare è questa demagogia del cazzo che lei fa. Lo può scrivere”. Siamo tutti demagoghi. L’Italia, si avventa, si scaglia, si inferocisce, digrigna i denti, perde la testa. Trasuda violenza, per una partita di calcio.

Torniamo a quel 4 Luglio del 1952 e sovrapponiamolo al 5 Ottobre del 2014, come e cosa è cambiato, in Italia, in questi sessantadue anni? Perché ci siamo così incarogniti? Coppi e Bartali, e il bar sport politico, sono due metafore di due Italie? Oh, yeh… risponderebbe Jannacci. È l’Italia dei senza speranza, impalpabile, ferocemente frivola, intimamente violenta. Quella dei deresponsabilizzati. Dei cavilli per farla franca. Dell’impunità al governo e del governo delle impunità (vent’anni di Berlusconi sovrapposti a vent’anni di sinistra via via sempre più diluita, incidono). Un’Italia nemica al suo interno.

A proposito di responsabilità. Pianura, periferia napoletana. Un quattordicenne viene seviziato, in quanto grasso, in un autolavaggio, utilizzando il tubo dell’aria compressa. Risultato: ragazzino in fin di vita, sette ore di operazione e colon asportato. La sua vita è segnata per sempre. Condannato a difficoltà indicibili. I protagonisti sono un ventiquattrenne sposato e padre di una creatura di due anni e altri due adulti. Lo sdegno è superfluo esprimerlo, ma ancora più vergognose, se è possibile, sono state le parole dei parenti del ventiquattrenne: “non è stata violenza, solo uno scherzo finito male”. Minimizzare, allontanare le responsabilità anche quando ti schiacciano. Negare l’evidenza. E torniamo all’Italia che fu. Di fronte ad un episodio, anche molto meno brutale di questo, la famiglia prendeva le distanze, si metteva in prima fila, diceva “se è stato lui è giusto che paghi”. Lo dicevano i padri, lo dicevano le madri. Non per meno amore, ma per un senso di dignità. Ecco la grande assente, la dignità. L’analisi sociologica di questo mutamento antropologico sarebbe lunga e ci porterebbe lontano, ma, sicuramente, lo spettacolo continuo di chi ha governato l’Italia rimanendo impunito malgrado l’evidenza dei fatti, ha contribuito a rafforzare l’idea che ogni verità, anche la più bieca, vergognosa, atroce, può essere edulcorata, manipolata, raccontata in maniera diversa.

Se i festini possono diventare simpatiche cene conviviali, le violenze su un ragazzino possono essere raccontate come simpatici scherzi finiti male. L’Italia, ammalata cronica di ghedinismo. Intanto, un presidente della repubblica e un boss mafioso rischiavano di ritrovarsi in un’aula di tribunale. E anche questa, se volete, potete leggerla come un’istantanea metaforica.

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GIUSI    BUTTITTA

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