La lingua di Camilleri prima di Camilleri- di Franco Lo Piparo

La lingua di Camilleri prima di Camilleri- di Franco Lo Piparo

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Quando si mette a fuoco la lingua di Camilleri bisogna anzitutto porsi la domanda cruciale: perché Camilleri viene letto e capito più fuori della Sicilia che in Sicilia? L’aveva riconoscito lo stesso Camilleri in un’intervista al “Corriere della Sera” (maggio 2015): «La casalinga di Voghera (…) poi va a finire che la mia lingua la capisce meglio di certi siciliani». Come mai? In che senso la lingua di Camilleri ha a che fare col siciliano? 

Vi propongo la lettura di questi due piccoli testi:

«Lo Imperaturi, & Rè nostro Signori mi havi comandatu che io debbia convocari vui altri Signuri di li tri Bracchij [leggi: Bracci] rapresentanti tutto quisto so fidelissimo Regno, & donassi alcuna notitia a Vostra Reverendissima Signuria & a tutti vui altri signuri di li grandi & excessivi dispisi che sua Cesarea Majestà da multi anni in qua havi fattu & continuamenti fà per la conservactioni & tranquillo viviri di soi subditi».
«Prima di ogni cosa bisogna ’nsignari a li picciriddi di farisi lu signu di la Cruci, e avvizzarili a farisillu lu chiù spissu chi po’, e specialmenti quannu vannu a durmiri, quannu si levanu e a lu principiu e a lu fini di lu manciari. Poi cci si ponnu fari spissu li siguenti interrogazioni e ’nsignaricci e faricci ripetiri continuamenti li currispundenti risposti».

Non sto citando da Camilleri. Il primo testo risale al 1528 ed è tratto dalla lettera di convocazione dei tre Bracci («Bracchij» nel testo) del Parlamento siciliano inviata dal viceré Ettore Pignatelli. Il secondo è datato 1764 e fa parte delle raccomandazioni che Francesco Testa, arcivescovo di Monreale dal 1754 al 1773, premette al su catechismo ad uso delle parrocchie siciliane.
Le citazioni potrebbero continuare. Che dire? Il vigatese di Camilleri nasce prima di Camilleri. Elenco alcune delle sue caratteristiche.
Prima e fondamentale caratteristica. È una lingua comprensibile a chiunque conosca l’italiano, indipendentemente dalla regione in cui è nato e dal dialetto che usa. L’imbattersi in parole che non si conoscono (taliari per guardare, addunarsi per accorgersi, cabasisi per … cabasisi, eccetera) capita a chiunque parli una qualsiasi lingua: il significato lo si va a controllare in qualche dizionario o si chiede a chi ne sa di più o, più banalmente, lo si deduce dal contesto discorsivo in cui la parola nuova occorre. Le parole nuove non sono segno di lingua nuova.
Seconda caratteristica. Dietro i testi citati si sente la voce viva di un parlante. Se avete qualche problema di comprensione leggeteli a voce alta e capirete subito. Il vigatese di Camilleri va appunto letto a voce alta. È la tradizione dei contastorie (non cantastorie) che il nostro scrittore agrigentino ha elevato a lingua letteraria.
Terza caratteristica. Non è una lingua depositaria di una cultura popolare. ‘Popolare’ nel senso di separata e/o distante dalla cosiddetta cultura alta. Volete degli esempi? Rileggete il teatro di Martoglio e ne trovate in grande quantità. Popolani parlanti in vigatese e borghesi o aristocratici parlanti in italiano libresco interagiscono tranquillamente senza alcun sostanzile problema comunicativo. Se nascono equivoci sono in grado di chiarirli. Il vigatese, di Camilleri e prima di Camilleri, non è una barriera comunicativa tra i vari ceti sociali.
Prendete il personaggio Mastru Austinu di San Giuvanni Decullatu. Ciabattino e analfabeta, ama parlare citando proverbi e modi di dire dotti («Escusaziu non pitita a cu’ saziu manifesta! (…) veni a dire che àviti la cuda di paglia, osia carboni bagnato», ad esempio) o esprimere il proprio pensiero cantando brani di opere liriche («La donna è mobeli – Di piumi al veento / Muta d’argento – E di pensier … / È sempre misero – cui si nni fida, / Cu’ ci cunfida – Il cardo cor! …», ad esempio).
Ricordo che Martoglio veniva applaudito nei teatri torinesi e romani e che non erano di contenuto folclorico le storie raccontate dai contastorie, attivi ancora nelle piazze siciliane negli anni cinquanta e sessanta del secolo scorso.


Conclusioni? Il vigatese di Camilleri non è siciliano, è più correttamente la variante siciliana dell’italiano comune. Ha un grande precedente letterario. È la continuazione, sapientemente costruita, della lingua parlata dai popolani dei Malavoglia. Come parlano e pensano i pescatori di Trezza? Riproducono il parlato usato da Verga e Capuana nelle loro chiacchierate e ben documentato nei loro epistolari: lingua sintatticamente italiana, lessicalmente piena di parole siciliane ma anche di toscanismi dotti e libreschi.
L’aveva teorizzato Verga prima di Camilleri: «Ascoltando, ascoltando si impara a scrivere» – aveva detto a Ugo Ojetti in un’intervista del 1895. Ascoltando, non leggendo. Quella di Camilleri è una scrittura parlata. I suoi racconti sono per l’appunto scritti per essere ascoltati. L’autore usa la penna come il contastorie usava il piedistallo: per far sentire meglio la propria voce narrante. Durante la lettura il lettore si trasforma in ascoltatore. È Camilleri che lo dice conversando con De Mauro (La lingua batte dove il dente duole, Laterza 2013): «Sembra esserci una certa necessità, almeno per i miei libri, di una lettura ad alta voce, cioè dell’oralità, del sentir leggere».
Camilleri è l’esempio più recente, e tra i più illustri, dell’italiano come l’aveva descritto Dante nel 1300 nel De vulgari eloquentia: l’italiano, diversamente da altre lingue nazionali, non ha una capitale che detta univocamente le regole del suo funzionamento ma in qualibet redolet civitate nec cubat in ulla «fa sentire il suo profumo in tutte le città italiane ma non risiede in nessuna di esse». Detto nella terminologia moderna: la lingua italiana è un insieme non gerarchico di varietà. Il siculo-italiano è una di esse.

Per concludere leggete a caso una pagina in vigatese di Camilleri. Ad esempio l’esordio de La giostra degli scambi:
«Alle cinco e mezza di quella matina, minuto cchiù minuto meno, ’na musca, che pariva da tempo morta ’mpiccicata supra al vitro della finestra, tutto ’nzemmula raprì l’ali, se l’annittò accuratamenti strofinannole, pigliò il volo, doppo tanticchia virò e si annò a posari supra al ripiano del commodino».
Confrontatela coi testi del Cinquecento o del Settecento siciliano che ho citato all’inizio. Non è difficile trovare le continuità.
Camilleri ha dato dignità letteraria alla variante siculo-italiana della nostra lingua comune. Sull’onda interpretativa di Dante. Non è un merito da poco.

Franco Lo Piparo
Professore emerito di Filosofia del linguaggio
Università di Palermo

Articolo tratto dal quotidiano La Repubblica nell'edizione di sabato 27 luglio 2019 

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