Il posto di un amico- di Maurizio Padovano

Il posto di un amico- di Maurizio Padovano

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È cominciata più o meno dieci anni fa questa mia incapacità.

L’improvvisa dipartita di un amico mi lasciò così attonito da non riuscire a cancellarne, qualche giorno dopo, il numero telefonico e il suo nome dalla rubrica del cellulare. Perché quel nome era, ed è, tutto: non esiste l’amicizia in generale, nonostante le riflessioni generali che la filosofia da due millenni e più vi ha dedicato. Esistono gli amici, uno per uno, ognuno con il proprio carico di limiti e di straordinarie aperture; ognuno speculare ai nostri desideri profondi come alle nostre viltà, ognuno con il proprio nome.
E così mi ritrovo, man mano che invecchio, con una rubrica telefonica piena di numeri di persone estinte ma che continuo a incontrare nei miei ricordi e nei sogni. Ogni tanto mi scappa pure - mi vergogno quasi ad ammetterlo - di comporre quei numeri estinti: ma metto giù dopo un paio di squilli, nel terrore che qualcuno possa rispondermi.
Pochi giorni fa è mancato un amico carissimo, in maniera improvvisa e tragica. Francesco Sciortino. Eravamo perfettamente coetanei e da tali abbiamo attraversato esperienze di vita del tutto analoghe, pur nella loro inevitabile, singolare diversità. Non so dire bene quando la nostra conoscenza è diventata frequentazione e amicizia: ci conoscevamo già da ragazzini perché ci si incontrava, ambedue appassionati di fumetti (ma lui sapeva anche crearne, io solo leggerli), nelle edicole del Corso Umberto dove, sotto l’occhio benevolo dell’edicolante, spulciavamo per ore, sempre incerti su cosa acquistare: per quello che desideravamo, infatti, non sarebbero mai bastati i nostri spiccioli.
È da circa trenta anni invece che avevamo cominciato a condividere un certo sentimento della vita, una certa idea di mondo - come mi ha ricordato una foto in bianco e nero, ritrovato in fondo a un cassetto, che ci ritrae seduti con le spalle contro un muro di pietra, che ricordo ancora caldissimo di sole autunnale. Auspice il comune amico Tom Di Salvo - che a una sua mostra ci aveva presentati pensando che non ci conoscessimo - avevamo organizzato una gita domenicale a Petralia Soprana, dove fummo ospiti della nonna di mia moglie. Una della ragioni di quella scampagnata fu osservare come durante il giorno, a secondo a dell’incidenza dei raggi solari, l’arenaria delle case in pietra di quelle straordinarie vallate mutasse di tono: dal grigio divisa a un quasi rosa pomelia. Francesco mi diceva che di quelle pietre lui avrebbe saputo trarne su tela tutte le mutazioni: lo aveva già fatto dipingendo più volte i ruderi della Torre Amalfitano, prima che un esiziale restauro ne disperdesse la magia piranesiana. Ognuno ha la sua cattedrale di Rouen! Francesco avrebbe tratto una lezione preziosa anche dalle pietre madonite, come ebbi modo di constatare nei decenni successivi, perché aveva il dono raro di saper sintetizzare da un muretto a secco, da un impiantito di maioliche diruto, dal profilo di un ulivo non ancora rimondato, ricchezze e saperi che altri - se fortunati - comprendono compulsando centinaia di volumi in decenni di studio indefesso. Lui infatti, a differenza di tanti di noi, vedeva il mondo direttamente con l’anima - un’anima che la pratica della meditazione e la sorvegliata frequentazione del mondo rendevano ancora più prensile e accorta.
Se una cosa ha segnato più di ogni altra la sua arte, questa è il sentimento del sacro, disvelato, a volte anche con ironia, in centinaia di tele e di disegni. Un sacro che Francesco sapeva vedere, e dipingere, per simboli che non lasciano indifferenti - la serie straordinaria delle sue “Illuminazioni” lo testimonia al meglio. Per di più, essendo Francesco sinceramente cristiano, non ha mai vissuto il sacro indossando abiti confessionali: la predilezione e la inesausta curiosità per il mondo del misticismo islamico e per il Sufismo ne sono testimonianza (ne stava lasciando traccia in una serie di straordinari fumetti da lui disegnati, e ancora inediti, che ripropongono apologhi e apoftegmi di quella tradizione). Da grande uomo, oltre che da artista d’eccezione, Francesco sapeva vedere e cogliere le analogie fra mondi, linguaggi, riti lontani e ridurne le differenze a varianti: cioè sapeva cogliere l’umano nella sua ogni volta singolare universalità. E per questo il sacro - e il suo plurale manifestarsi - lo ha raccontato e dipinto nei momenti in cui si ricongiungono, nella verità dell’opera, i poli contrapposti dell’esistenza, cioè il bene e il male. Gli stessi intensi momenti in cui si coagula in un grumo finalmente decodificabile l’oscillazione dei significati che quotidianamente ci disorienta e ci mette alla prova e che soltanto nella percezione del sacro - cioè nella ricomposizione di ciò che sperimentiamo come diviso, come conflittuale - si placa. Non a caso il sacro - con la sua indecisione lacerante tra la luce e il lutto - lo percepiscono meglio degli altri i folli, i mistici, bambini e gli artisti. Francesco è stato un artista mistico che ha ben saputo conservare nel suo sguardo una ingenuità infantile piena di saggezza. Era uno che sapeva bene che quando ammiriamo una perla, non facciamo che dimenticare la malattia della conchiglia. Questa, in fondo, la funzione dell’arte; questa la sintesi suprema che il raccontare - per immagini o con le parole - consente: del resto, diceva Sciascia “Nulla di Sè e del mondo sa la generalità degli uomini, se la letteratura non glielo apprende”. Io aggiungo, e so che la cosa farà felice il mio amico, che nulla continuiamo a sapere, ad onta di arte e letteratura, se non sappiamo posare uno sguardo incantato e riconoscente alla bellezza che, prima di ogni mediazione umana, il mondo in sé già ci offre. Tal incanto, con una forza che talvolta sentivamo entrambi simile a un sortilegio, l’abbiamo rinvenuto nella fragile, elegante e rasserenante pianta tropicale della plumeria - dalle nostre parti nota come pomelia - con cui abbiamo popolato i rispettivi terrazzi di casa. Rimarranno un segreto fra me e lui certe fughe di mezza giornata verso i vivai della Sicilia orientale alla ricerca di una varietà che ancora non conoscevamo, di un fiore di plumeria dal colore inatteso, di una foglia ancora più singolarmente lanceolata. E di quanto sacro ci sembrò, in una di quelle fughe, il cimitero dei cani di Lucio e Casimiro Piccolo presso Villa Piccolo a Capo d’Orlando.

Nella nostra ultima, e come al solito torrenziale, conversazione telefonica - solo una settimana prima che venisse a mancarci - con Francesco abbiamo messo a punto alcune idee per l’organizzazione di una mostra che, qui, non farà mai più: una serie di tele ispirate al romanzo omerico Orcynus Orca di Stefano D’Arrigo. Una carrellata di fotogrammi scorciatissimi, dal basso, delle onde in subbuglio nello stretto di Messina, che dessero ragione delle fere, della traversata odissiaca di Ndrja e di Ciccina Circé verso casa - perché da casa non andiamo mai via definitivamente e non vi torniamo mai una volta per tutte…che raccontassero il mistero delle femminote, la variante umana delle fere e secondo leggenda entrambe discendenti dalla stessa creatura ovvero la sirena. Ne abbiamo parlato per l’ennesima volta come se avessimo avanti ancora mille stagioni da vivere e da condividere. Nessuno di noi due poteva e voleva immaginare che presto non sarebbe stato così.
E adesso, mentre continuo a sentire la sua voce - lievemente metallizzata dal collegamento telefonico - mi sorprende l’immagine con la quale ricorderò il mio amico. L’immagine di un trattenuto gesto Sufi: Francesco che accenna a un passo di danza mistica con il palmo della mano sinistra - rivolta verso il basso, la terra che calpestiamo e di cui siamo fatti - sospeso su una tela che non smetterà mai di dipingere; e col palmo della destra - proteso verso il cielo cui tutti dovremmo aspirare - a impugnare un pennello che è la sua chiave universale per il regno della bellezza: e meravigliosi petali di pomelia, di tutti i colori immaginabili, gli piovano così fitti attorno da lasciare intravedere il blu e l’azzurro solo a scaglie.

P.S. Lo so: quando vorrò risentire andrò a sbirciare nella rubrica telefonica… il piccolo paradiso onomastico dove gli amici vivono ancora.

Bagheria 17 maggio 2020

Maurizio Padovano

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