Di chi è la mia vita ? - di Giusi Buttitta

Di chi è la mia vita ? - di Giusi Buttitta

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Sull’autodeterminazione – Brittany Maynard (di cui probabilmente avrete letto), la ragazza americana di 29 anni che ha scelto l’eutanasia rifiutandosi di spegnersi lentamente tra le atroci sofferenze che le provocherebbe un tumore al cervello, ha deciso di rinviare la sua decisione. In un primo momento aveva annunciato di volersene andare il primo novembre, all’indomani del compleanno del marito Dan, ora il rinvio della decisione lo ha giustificato così: “Sto ancora abbastanza bene, provo ancora gioia, mi diverto e rido con la mia famiglia e i miei amici, adesso non mi sembra il momento giusto per morire”.

La vita vale ancora la pena di essere vissuta, almeno ancora un po’. Il caso ha rinfocolato il dibattito, a livello mondiale, su argomenti come: suicidio assistito, eutanasia, o nulla. In molti paesi del mondo sulla questione si è presa una posizione, in Italia siamo lontani anni luce anche, semplicemente, da un dibattito serio. La questione è delicata; e non voglio addentrarmi sugli aspetti tecnici. Solo un dato, pare che in Italia si verifichino circa mille suicidi l’anno che hanno come spinta motivazionale la prospettiva di un percorso legato a una malattia terminale. Quindi, senza – per il momento - voler prendere posizione a favore o pro rispetto alle possibili soluzioni e/o alternative, la domanda da porsi è: “di chi è la mia vita?”.

La domanda è meno scontata di quello che possa sembrare, perché se la risposta, quella più ovvia, è “mia”, la domanda successiva è “fino a che punto è tua?”. Per esempio, a proposito della scelta di Brittany Maynard, il dottor Ira Byock, specialista in medicina palliativa ha dichiarato: "L'hanno informata male. Potrebbe avere cure eccellenti. I suicidi assistiti non sono una scelta personale, ma un atto sociale". E qui entriamo dentro il cuore del dibattitto: “I suicidi assistiti sono una scelta personale o un atto sociale?”. Perché se non ci si ponesse questa domanda la questione potrebbe essere “facilmente” dipanata seguendo la logica del libero arbitrio; al di là di come la si pensi andrebbe lasciata ad ognuno la libertà di decidere per se stesso. Quindi, come per molte altre tematiche, chi è d’accordo può scegliere il suo percorso, chi è contrario si può astenere senza la necessità di costringere l’altro ad adeguarsi alla sua visione delle cose. Sembra civile, no? Quasi ovvio.

Non è da trascurare il fatto che un percorso assistito, sostenuto da equipe di medici in grado di fornire supporto psicologico, potrebbe far cambiare idea al malato e, probabilmente, quella che apparentemente sembra una soluzione cinica di una società permissiva si trasformerebbe nella via migliore per intercettare la disperazione e restituire dignità al soggetto. Perché anche morire con dignità è un diritto, se il suicidio assistito è considerato da qualcuno disumano, abbandonare il malato lasciandogli l’unica via di una morte non dignitosa e spesso atroce, non è meno disumano. Perché, alla fine, la risposta di molti che ritengono di essere dalla parte giusta è: “Vuoi morire? Arrangiati, non sarò certo io ad aiutarti”.

È chiaro che il tema è di una complessità enorme e ogni singola parola sull’argomento può dividere; io – per esempio – ho tirato dentro l’aggettivo “dignitoso”, mi rendo conto di quanto sia soggettivo il significato, Montanelli sosteneva che “la vita è degna di essere vissuta finché si è in grado di andare in bagno da soli”. È un criterio, non è la verità assoluta. Era il criterio di Montanelli. Aggiungo anche che trovo un po’ paradossale che una società che permette di decidere, dentro rigidi paletti, di abortire (prendendo, comunque la si metta, una decisione per un soggetto terzo), poi impedisca (dentro altrettanti rigidi paletti) di decidere della propria vita. E torniamo all’affermazione del dottor Ira Byock per chiederci nuovamente: “I suicidi assistiti sono una scelta personale o un atto sociale?”.

Vi do la mia risposta, per quel che vale. Quale atto, mi chiedo, individuale non è in qualche misura sociale? E se bastasse questo criterio per consentire ad una società di decidere al mio posto, cosa ne sarebbe della mia libertà individuale? Per esempio: Fumare o riempirmi di grassi saturi, fare parapendio sono atti individuali o atti sociali? Non ci sarebbe atto, anche il più banale, da questo punto di vista (quello del dottor Ira Byock), che non possa essere considerato oggetto di espropriazione rispetto alla sfera delle decisioni individuali.

E allora, dovendo prendere una posizione, dico che all’ipocrita “buonismo” del “No”, preferisco il pietoso “cinismo” del “Sì”.

Nota a margine: trovo insopportabile che chi è già chiamato a prendere decisioni drammatiche e laceranti debba anche sopportare il peso di chi gli punta il dito contro.

Giusi Buttitta

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