Tra i pescatori di Aspra come tra personaggi di Verga - I parte

Tra i pescatori di Aspra come tra personaggi di Verga - I parte

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L’incontro coi pescatori di Aspra che raccolti in gruppo formano una piccola folla sulla spiaggia intorno alle barche tirate in secco, è una sorpresa autentica e rivelatrice, che ci invita a mescolarsi volentieri con mercanti di sole, eredi degli avi fenici navigatori, abitanti in un umile paesello di Sicilia,
che da un mitico avvoltoio prese il nome di Aspra, o “pietra gialla”-“asfra”- come dicono gli arabi.

Aspra è una borgata umile nell’aspetto, con le sue stradelle tessute d’azzurro e con le sue case come moschee che sanno d’incenso e d’ambra, ma la bellezza selvaggia e tropicale del suo paesaggio, la varietà cangiante del suo mare e delle sue scogliere, fanno pensare a questa terra come a uno di quegli scali sconosciuti, ove si fermavano a volte le insaziate navi di Ulisse, in robuste carene e celeri remi.

Ma non dell’avventuroso Odisseo, non di alcun mitico scenario, non di fantasie sognanti emerse dalle baie e dai golfi incantati e nemmeno di nordiche Veneri che si specchiano negli ovali smeraldini delle grotte maiolicate di Capo Zafferano, si di umanità dolente, si di vita che soffre e combatte, parlano ora gli uomini rudi raccolti intorno a noi.

Ecco: un vecchio solleva alcune ampie reti e le distende.
Si scorgono, come ferite, degli squarci lunghissimi.

“Guardi queste reti-signore. E’ la strage compiuta dai delfini. I nostri marinai veglieranno tutta la notte per risarcirle; e intanto, per oggi, tutta la pesca è perduta.

Siamo giunti sulla spiaggia proprio nel momento in cui le barche ritornavano dalla pesca, senza preda, dopo l’opera di struggitrice dei delfini; e a quell’ora si era tutti vicini a una barca, stretta e sottile che ricordava le antiche barche egiziane, per seguire lo spettacolo della sera che precipitava a filtri e cascate attraverso uno squarcio sanguigno del crepuscolo morente.

Un marinaio dalla voce rugginosa che mi sedeva accanto parlava concitato e ogni tanto giungeva le mani come per implorare la Vergine marinara collocata nel ricavo di un muro, in una cornice di fiori, raccomandandoLe la sua sorte.

Domandiamo ai pescatori, a quegli stessi uomini che non hanno avuto paura dell’infierire delle tempeste: “Perché non li uccidete? Sapete che c’è un premio per ogni delfino che si uccide”?
-“Lo sappiamo, ma non abbiamo i mezzi. Ci vogliono altre barche, altre fiocine, Le nostre forze sole non bastano. Dobbiamo raccomandarci alla Madonna, perché i branchi di delfini non vengano a rovinare la nostra pesca; e da qualche tempo lo fanno spesso”.

Osserviamo un mondo vergine, silenzioso e paziente, povero e generoso che ci conduce per mano a contatto di tante scoperte per quanto l’anima della popolazione è inesauribile e varia; un mondo che nei fianchi delle barche e nelle rughe dei vecchi marinai mostra aspetti di ben altra solidità umana.

Tocchiamo quasi col cuore l’esistenza di questa gente, ascoltando vecchi pescatori dai brevi nomi fenici (Zizzo) che i giovani guardano con timoroso rispetto. Se ci soffermiamo un momento, ci sovviene che forse non sono pochi i marinai usciti fuori come per incanto dalle pagine di uno strano e vero romanzo, per avere vissuto- senza saperlo- l’esatta avventura nell’ultima storia di Hemingway, “Il vecchio e il mare”.

Ed hanno affrontato i flutti predoni, veleggiando con un grosso pesce
legato allo scafo di una minuscola barca, sfidando anche i pesci più voraci d’alto mare. Ce lo hanno detto con semplicità, nel loro dialetto,lirico, che sa un po’ di cantilene arabe cantate, guardando con gli occhi socchiusi questo “tremolar della marina” che finge tutto un rimescolio di vetri e lapislazzuli fosforescenti.

Ma intanto non ci appaghiamo di questa visione carica di letizia mediterranea ma amiamo scandagliare sino in fondo il dramma umano perchè l’immane natura col suo prodigioso azzurro e col suo fragrante canestro ricolmo di coloratissimi doni e di vele serene che rigano gli orizzonti nasconde la miseria e il pianto. Non vogliamo restare indifferenti di fronte alla rassegnata tristezza che è in questi nostri lavoratori del mare e contrasta stranamente con la loro prestanza fisica.

Castrense Civello

Bagheria, 1909-1974.
Poeta futurista, a diciannove anni pubblica Vent'anni tra le zagare e il mare, con copertina disegnata da Renato Guttuso; nel 1930 è con Giacomo Giardina al Salone degli Illusi di Napoli, per il "Circuito di poesia meridionale", conquistando il secondo posto alle spalle dell'amico-antagonista Giardina. Insieme a quest'ultimo è inserito nel '39 fra i veniquattro poeti futuristi dal P.E.N. di Roma e nel 1941 è nella Carlinga di aeropoeti futuristi di guerra di Pattarozzi. Nel '41 esce la sua opera principale "Aria Madre", con collaudo di F. T. Marinetti, grazie al quale vince il Premio Aeronautico indetto dall'università di Padova. Aria madre sarà anche, dal 1938, il nuovo nome del cenacolo futurista bagherese, ex "Gruppo futurista della conca d'oro".
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