Cultura

Officina di vita: Laboratorio di vita e di scrittura creativa, di incontri e di apertura al territorio , di obiettivi che parlano di avvio alla Vita Indipendente e di conquista del proprio orgoglio personale. Per mesi l’Afda – Officina di vita, con la sua presidente, Luigia Perricone, ha avviato insieme al grande Giorgio D’Amato, scrittore di indubbia professionalità , un percorso di scrittura creativa , presso Officina di Vita, con giovani diversamente normali e studenti di appena otto anni. Obiettivo : crescere sia dal punto di vista letterario, sia sociale e culturale per un cambiamento di fatto e non annunciato.

Ieri,1 luglio, si è svolto presso la libreria interni 95 il primo reading e la presentazione di una raccolta di brani dal titolo “Lo strano caso della gatta morta” . Un successo di pubblico e di consensi che ha visto una magnifica performance dei ragazzi, che per mesi hanno scritto, letto, provato ad ascoltarsi per dare vita a brani al di sopra di ogni aspettativa, vista la loro tenera età, e di alcuni giovani diversamente normali, che ieri sera con orgoglio sono stati più volte applauditi e apprezzati dal folto pubblico accorso ad ascoltarli.
Vari i temi affrontati,ognuno colmo di estro e fantasia, di riflessioni importanti che hanno avuto come centro di interesse tutto: dai problemi sociali, alle semplici azioni ed esperienze individuali, alla descrizione di uno stato emotivo vissuto.

Tra gli scritti, hanno suscitato grande emozione le lettere d’amore di Maria e Rosario: “Mi sento viva insieme a te,oggi mi sento più donna”; “Vivo ogni giorno solo per dirti... Buongiorno Principessa”; e l’ intenso messaggio di Dario, che , partendo dalla confusione di una farmacia, come metafora della vita, sottolinea il disagio e la confusione della nostra città, in queste semplici parole “Povera Bagheria, 200 bare bruciate,neanche i morti hanno pace” , parole che hanno lasciato esterrefatti i i presenti e riempito i loro occhi di lacrime.
Un impegno certosino, realizzato grazie a un nuovo modo di concepire la diversa abilità e lo spazio fisico della sede, luogo da cui i ragazzi, non volevano andare via, la sera alla fine del percorso iniziato.

Un lavoro valido dal punto di vista letterario per la grande professionalità di Giorgio D’Amato, che ha saputo lavorare sì su basi solide, ma che ha portato entusiasmo, grande professionalità, l’amore per la scrittura , la gioia e la serietà dell’impegno , elementi che hanno indubbiamente contribuito a raggiungere questi successi così brillanti. L’afda non si ferma qui, continuerà il suo obiettivo principale , quale la conquista della vita indipendente, ponendosi come misura di cambiamento, dando degli input alla nostra distratta società e far comprendere come la normalità non è il risultato di una conquista progettuale, esplicitata per alcuni mesi da scuole o professionisti del sociale, ma frutto di consapevolezza, di azioni semplici, sperimentate attraverso comportamenti naturali e spontanei e costanti nel tempo.

Un riconoscimento va in particolare anche ai genitori che hanno condiviso obiettivi, tempo ed energie per dare vita a un modo di essere attivi, ad un successo e a un cambiamento di cui sono anch’essi protagonisti.
 

Martedì 1 luglio alle ore 18.15- presso la libreria Interno 95 - in via Dante prolung. , l' associazione AFDA - Officina di Vita vi invita al Reading "Lo strano caso della gatta morta" uno spettacolo con i ragazzi del centro e della squadra che hanno frequentato il laboratorio di scrittura creativa presso il centro Afda- Officina di vita, tenuto da Giorgio D'Amato e Luigina Perricone.

Il cambiamento passa soprattutto dalla cultura.

Nessun cambiamento può trascurare la formazione dei giovani e il loro approccio ad una realtà che non parla di normalità, ma la vive intensamente: Noi lo abbiamo fatto.

Ieri disabili. Oggi diversamente abili. Domani “Normalmente” felici. Vi aspettiamo numerosi.

La presidente dell'Afda Luigina Perricone
 

Alla ricerca di nuovi luoghi da visitare, con l’ausilio di Google Earth, Serradifalco inizia a osservare la Terra da un’altra prospettiva, con nuovi occhi, scoprendo scenari immaginari all’interno di deserti, baie, barriere coralline, catene montuose e valli sconfinate. Quasi per caso, Max scopre che la Terra osservata dal satellite può assumere nuove forme, come se la Natura magicamente desse vita a inaspettate e straordinarie opere d’arte, attraverso un “gioco” della vista che è un “ri-vedere” e un “ri-creare”. Osservando le fotografie di Serradifalco, potrebbero venire in mente le teorie dello psicologo e critico d’arte Rudolf Arnheim: il processo visivo è un atto creativo, in cui l’osservatore è coinvolto nella “creazione” dell’opera d’arte, sulla quale proietta la propria immaginazione e le proprie emozioni. Quello di Serradifalco è certamente un occhio privilegiato, quello del grafico, del fotografo, ma soprattutto dell’artista dalla spiccata sensibilità, che ci guida alla scoperta di aspetti della realtà che travalicano addirittura la fantasia: sembra quasi che la Natura imiti – ovviamente in maniera inconsapevole – l’arte, o che a volte imiti se stessa.

La “Web Landscape Photography” – nome che Serradifalco ha dato a questa nuova frontiera della fotografia paesaggistica – porta, naturalmente, a fare delle riflessioni sul concetto stesso di fotografia.

Può essere considerata fotografia anche un’immagine acquisita attraverso il satellite, che non è stata realizzata, quindi, avvalendosi delle tradizionali attrezzature fotografiche? Per la risposta, ci avvaliamo delle parole del fotografo Ferdinando Scianna che, riguardo alle Web landscape photographies di Serradifalco, ha affermato: «A me le web immagini di Max Serradifalco sono piaciute. Ma sono fotografie? Certo che lo sono. In definitiva, anche la riproduzione fotografica di una fotografia è una fotografia». L’aspetto peculiare evidenziato dalla fotografia di Serradifalco è la capacità ri-creativa coadiuvata dall’immaginazione: fattore, questo, che consente a Max di captare nuove immagini del nostro pianeta, per mostrarcele così come sono, senza filtri né manipolazioni, sdoganandosi dalle usuali apparecchiature fotografiche per avventurarsi oltre i confini tecnici ed estetici della fotografia tradizionale. Quella di Max Serradifalco continua a essere fotografia paesaggistica, contraddistinta dalla ricerca e dall’osservazione della Natura, nell’attesa che la sua immaginazione “ri-crei” nuove forme e significati. E così, rimaniamo meravigliati dalle cromie dalla
consistenza quasi materica di un fiume che scorre in Australia, dalle delicate tonalità della baia di Abu Dhabi, dai fiordi canadesi che sembrano districarsi da un groviglio di rovi, dallo scorrere delle acque, dal movimento delle maree, dall’irregolare e mutevole andamento delle dune del deserto, dalla scabrosità della roccia: elementi, questi, che ricreano effetti simili a vigorose pennellate, velature acquerellate, geometrie e astrattismi» (Desirée Maida).

La mostra sarà visitabile fino al 31 luglio 2014

Orari: lun. ven. 10.30/13.00 16.30/19.30 sabato e domenica su richiesta

Galleria Frammenti D'Arte Via Paola 23, 00186- Roma tel +39.06.93571441 - fax +39.06.92594548 - mob +39. 333.2000389 Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. www.galleriaframmentidarte.com 


Venerdì 20 giugno alle ore 19.15  alla Torre 'Duca di Salaparuta' di Casteldaccia, in occasione del 160° Anniversario della fondazione del comune, presente la scrittrice Dacia Maraini, si terrà un incontro sul tema  "Ricordando Casteldaccia". Alla serata, organizzata dalla Consulta della Cultura, parteciperanno come relatori, lo storico Nino Morreale e lo scrittore Maurizio Padovano. Modera la giornalista Maria Luisa Florio. La scrittrice parlerà dei suoi ricordi all'interno della Torre in cui i suoi avi diedero inizio alla prestigiosa casa vinicola Corvo e nella quale, la stessa scrittrice, ha ambientato un suo noto racconto. 

Nella circostanza pubblichiamo una riflessione di Maria Luisa Florio sui luoghi descritti da Dacia Maraini, in particolare nel romanzo 'Bagheria' e nel racconto 'Un sonno senza sogni', ambientato appunto a Casteldaccia.

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Chiunque legga sa bene che la macchina del tempo esiste. Si può soffrire con Ulisse tra i flutti alla ricerca di Itaca e stare a tavola con la migliore nobiltà russa ad ascoltare le critiche su Napoleone. Essere presenti all’autopsia di Tutankamon e fare il tifo per Pereira durante la dittatura di Salazar. Ma i bravi scrittori ci raccontano anche com’erano i luoghi dove viviamo, suppliscono, spesso, alla memoria lacunosa, alla mancanza di archivi e biblioteche, alla carenza di attenzione per il passato. Ci aiutano a riannodare i fili della memoria, a ritrovarci. Abbiamo un grande debito di riconoscenza verso questi autori, senza di loro non vedremmo mai a fondo, quello che siamo stati e ci perderemmo definitivamente nel grande mare dell’indifferenza e dell’oblio. Tra questi grandi scrittori c’è, di certo, Dacia Maraini: narratrice che non ha bisogno di presentazioni. Tradotta in tutto il mondo, ci ha regalato ritratti femminili straordinari, da Isolina a Marianna Ucria. Figlia dell’antropologo Fosco Maraini e di Topazia Alliata, da bambina, insieme alle sue due sorelle dovette affrontare l’esperienza dura del campo di concentramento in Giappone, per il rifiuto dei genitori di firmare l’adesione alla Repubblica di Salò. Nel 1947, liberati dalla prigionia, giungono a Bagheria. L’arrivo è magistralmente narrato nell’incipit del suo noto romanzo 'Bagheria', che rende l’idea, più di qualunque elenco di opere e premi ricevuti, della cifra letteraria della scrittrice.

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“(…) A Bagheria, si entrava allora dal basso, superando l’incrocio della ferrovia dalle spranghe che chiudevano per lunghi minuti sotto il sole fra un mulinello di mosche e moschini. E proprio a quell’incrocio si è fermata la carrozza, davanti al passaggio al livello chiuso. Mio padre è sceso per sgranchirsi le gambe. Il vetturino, intanto parlava col suo cavallo, lo incitava a compiere il suo dovere fino in fondo (…). A destra, un fico gigantesco, da cui pendevano dei sacchetti grinzosi, imbiancati dalla polvere, sembrava sbarrare la strada alle biciclette che venivano su dall’Aspra. A sinistra, si intravvedeva la stazione con le sue lunghe rotaie scintillanti. Davanti c’era la salita verso villa Butera, devastata da enormi buche (…). A piazza Madrice ci siamo fermati un momento a respirare- prosegue la scrittrice (…). Corso Umberto mostrava tutta la povertà di un dopoguerra amaro e patito: delle case sbilenche, delle misere botteghe, un convento, una scuola, un caffè composto da una stanzuccia senza finestre separata dalla strada con una tenda fatta di cordelle intrecciate (…). In quel pomeriggio del ’47 il vetturino si è fermato davanti al cancello di villa Valguarnera maledicendo, le salite, il caldo, le mosche. Una donna grassa, che poi avrei imparato a conoscere bene- Innocenza dal riso facile e affettuoso,- ci ha aperto gridando: Signor Boscu, signora Popopazia, signorina Raci, signorina Ciunka, signorina Ntoni, bene arrivati a Bagheria!” Seguirà il dipanarsi del romanzo che ben conosciamo.

Da Bagheria ci dirigiamo, adesso, verso Casteldaccia. Dobbiamo, però, tornare un po’ indietro nel tempo di circa duecento anni. E’ infatti l’estate del 1744 e Annamaria vive all’interno della torre del Duca di Salaparuta, in piazza Matrice. La donna ha una corrispondenza epistolare con Mirta che sta a Messina: fuggono entrambe dall’epidemia di peste che sconvolse la cittò dello stretto in quei mesi.

E’ l’incipit del racconto, Un sonno senza sogni (Drago Edizioni, 2006, 40 pp. 10 euro). Anche qui, nell'ambito della narrazione letteraria che non vuole certo sostituire quella storica, una descrizione di quello che siamo stati e che non ricordiamo più. “Dalla mia finestra che sta proprio al centro della torre vedo la strada bianca che porta verso il mare. Ma non vedo i cavalli attaccati ai grossi cerchi di ferro, né vedo le bottegucce di cui mi parlavi, quelle rialzate da terra con i sarti accucciati nelle nicchie come dei santi. La sola cosa che riconosco è l’odore di mosto che sale dalle cantine che si affacciano sul cortile. E’ un buon odore. Di sera si mescola a quello del rosmarino e dei capperi che crescono lungo i muri della torre.” Con pochi tratti la scrittrice ci conduce all’interno della Torre e del baglio. “Ieri sono scesa, ho bussato alla grande porta della distilleria e ho chiesto di visitarla. Mi ha aperto un tizio con gli occhi rossi e un ginocchio fasciato, non voleva farmi passare, ma quando gli ho detto che sono una tua amica è diventato subito gentilissimo. Mi ha mostrato le botti piene di vino, la grande tinozza di pietra in cui degli uomini a gambe nude rovesciano montagne di uva sfranta che lì dentro bolle e si macera. (…) mi ha portato sul ballatoio a vedere le larghe bacinelle di terracotta in cui sono tenuti a mollo collarini da avvolgere attorno ai tappi. E mi ha fatto vedere come funziona la ruota di legno che caccia i sugheri nel collo dei vetri e come viene impastata la colla per le etichette.”

All’interno di questa Torre, dunque si fa il vino. Ed è il vino il terzo protagonista, assieme alle due donne, di questo racconto epistolare. Viene, infatti, citato continuamente. “La malvasia profumava di mortella e di fieno fresco, certo che tu conosci questa malvasia di Casteldaccia- chiede Annamaria- È davvero squisita” Dalla malvasia si passa, poi, al vino bianco appena fatto. “Un vinello fresco dal sapore che salta sulla lingua -scrive ancora la donna all’amica- Ha il profumo delle vigne qui dietro la torre, sempre arroventate dal sole, con gli spuntoni di erba bruciacchiata, in mezzo a cui vengono su ardite certe foglioline di menta e di timo dall’odore acuto e insinuante.” Mirta conosce bene quel vinello e infatti risponde: “Conosco il vino di cui parli, in famiglia lo chiamavamo “u nicuzzu”, perché è appena nato. E’ fresco e si manda giù come una spremuta d’uva.” Dal novello al vecchio savio, “profumato come un damerino”, si discute di vini con competenza e rispetto. Il racconto, quindi, unisce due donne, due destini e un uomo che fa la spola tra le due, ma il vero collante tra tutti gli ingredienti, filosofia compresa, è il vino, a cui si legano sapori e odori, da sempre veicoli di identità e appartenenza.

Da questa memoria ritrovata, dunque, parte anche l’idea di un incontro tra la scrittrice e la cittadinanza, nei 160 anni dell’istituzione comunale, in una Torre da poco restaurata e restituita alla pubblica fruizione e nella quale la scrittrice, si ritroverà, gradita ospite, dopo parecchi decenni.

Il tutto, con la speranza che ciò possa essere solo l’inizio di un nuovo percorso a cui la cultura e una nuova ritrovata memoria possano fare da traino. Accompagnate, magari, da una nuova produzione di malvasia.

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Maria Luisa Florio
 

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