Arte, Ambiente e Territorio

Un tempo si usava dire agli amici “Vediamoci in piazza…”. Oggi, invece, spesso ci si incontra in rete. Sempre più comune e frequente l’uso di facebook e di altri social network (per es., Myspace e Twitter) come luoghi di ritrovo e di incontro. 

Tanto per i più giovani quanto per i meno sembra che la vita reale, fatta di rapporti veri e di contatti fisici, abbia trasferito la sua residenza nel mondo virtuale. La rete, di fatto, consente di superare le barriere del tempo e dello spazio e consente di vivere sé stessi in rapporto agli altri senza vincoli di ruolo, di convenzioni, di identità di genere: si può diventare chi si desidera. Questo aspetto infonde a chi intrattiene rapporti virtuali un senso di onnipotenza. E’, peraltro, possibile avviare relazioni velocemente e senza troppe difficoltà emotive.

Fino a qualche anno fa ci si preoccupava per i soggetti che abusavano di sostanze come alcool, eroina, cocaina, oggi si assiste a nuove dipendenze: quella dai videogiochi, dalle nuove droghe, da internet.
Proprio così! Si può diventare dipendenti dalla rete e, nello specifico, mi interessa parlare della dipendenza da face-book.

Immagino le espressioni perplesse di quanti tra voi si connettono alla ricerca di nuove amicizie, vivendo facebook come un passatempo, un diversivo per incontrare vecchi e nuovi amici, per condividere informazioni, foto o altro ancora.

Non voglio affatto dire che chiunque si connetta ed utilizzi facebook o altri social networks sia dipendente ed abbia sviluppato un problema di cui prendere coscienza. Ci sono però alcuni segnali che devono mettere in allarme rispetto ad un utilizzo patologico di internet da parte di quanti hanno perso il controllo e trascorrono molte più ore in rete che nella vita reale.

Quali sono i segnali della dipendenza da facebook o da altri social network? I sintomi di questa nuova dipendenza sono da rintracciare sul piano comportamentale, su quello psichico e su quello psicosomatico.

Da un punto di vista comportamentale, per es., chi sta sviluppando una dipendenza o l’ha già sviluppata trascorre l’intera giornata a connettersi, ad aggiornare il proprio profilo e a verificare se ci sono messaggi, se altri si sono associati alla propria pagina; spesso non mangia e non dorme. La vita su facebook diventa per lui/lei più importante di quella di tutti i giorni. Arriva tardi al lavoro, agli appuntamenti con persone significative, interrompe tutte le proprie attività di lavoro e di studio, concentrando la sua intera attenzione su internet e sui rapporti sociali avviati in rete ed abbandonando sempre più quelli della vita di tutti i giorni. 

Di notte non smette di pensare a ciò che succede in rete e si connette continuamente per lasciare tracce di sé. Il suo modo di esistere è quello di essere in rete. Facebook assume nei suoi pensieri il peso di una vera e propria ossessione, il primo pensiero del mattino e l’ultimo della sera. Se non è in rete, non esiste; vive solo se intrattiene messaggi su internet e se viene rifiutato come amico da qualcuno, sta male.

Quando il soggetto non riesce a connettersi, per impegni vari o per impossibilità tecniche, può presentare: ansia, pensieri fissi, depressione, paura, attacchi di panico, insicurezza, suscettibilità, problemi di sonno. Il soggetto, dunque, sta male psichicamente e fisicamente.

Ed, infatti, come accennavo ci sono alcuni segnali molto importanti che riguardano lo stato psicologico del soggetto che avverte un forte senso di inadeguatezza nelle relazioni sociali della vita reale tanto più quanto più si sente onnipotente in rete. Nella vita reale una persona dipendente da internet si sente frustrata ed incapace di concentrazione e di una buona riuscita nei rapporti con l‘Altro, di contro, avverte un senso di sicurezza, di socialità, di forte personalità nel relazionarsi via internet.

altNella vita di tutti i giorni appare apatico ed insofferente come se portasse dentro un senso di disperazione e di imminente catastrofe. Comincia a non assumere più la propria personalità ma a manifestare identità diverse dalla propria e da se stesso.  Nel tempo i sintomi di dipendenza assumono il carattere di sintomi fisici: nausea frequente, disturbi dell’alimentazione, cefalee, ipersudorazione, dolori muscolari, tensioni, tachicardia, vista annebbiata, difficoltà a mettere a fuoco.

A causa dei disturbi citati il soggetto che dipende da facebook fatica ancor più a condurre le abituali attività, riducendo, man mano, interessi ed attività e diventando depresso e spaventato dal proprio stato d’animo. La dipendenza da internet lo consuma pian piano come l’uso di una droga induce un decadimento fisico e psichico.

A livello cerebrale connettersi provoca il rilascio di una maggiore quantità di sostanze psicoattivanti come quando si assume una sostanza; a livello mentale si apprendono meccanismi e schemi ricompensatori che portano al riutilizzo continuo e crescente di face book esattamente come accade a chi consuma sostanze.

E’ chiaro che una persona che si ritrovi ad instaurare una simile dipendenza vive un disagio che lo ha portato ad inventarsi una vita lontana dalla realtà, trasponendo tutto sul piano virtuale. Spesso si rintracciano alla base della ricerca di questi rapporti distanti e poco profondi un problema nell’accettazione del sé ed evidenti difficoltà ad avviare relazioni con le persone della vita reale. 

Come accade per tutte le dipendenze occorre innanzitutto riconoscere che c’è un problema che nasce da un disagio molto profondo e farsi aiutare da uno psicoterapeuta.

Analogamente a chi si rifugia in un altro mondo assumendo alcool o droghe oppure giocando ai videogiochi anche chi evade nel mondo virtuale, dimenticando la vita reale, ha probabilmente scelto una strategia di fuga da una crisi che non è riuscito ad affrontare in altro modo, sperimentando un senso di sicurezza che non è reale ma fittizio.

Il percorso è difficile ma vale la pena intraprenderlo per ritrovare sé stessi e ritornare alla vita reale fatta di gioia e di dolore, di ragioni e di emozioni e, soprattutto, di rapporti attraversati da sguardi, abbracci e da tante altre sfumature che i contatti in rete riescono a trasmettere in modo fittizio e non naturale. 

Giuliana Larato, psicologa dell'età evolutiva, psicoterapeuta della famiglia e delle relazioni

Quando la disabilità irrompe in una famiglia, le risposte dipendono sempre dal significato che si dà a questa condizione, dalla coesione, dai sentimenti presenti che rivestono l’animo di tutti i membri della famiglia, dalle condizioni esterne, date dal contesto sociale, culturale, politico in cui essi vivono e si muovono. Più forte è l’indifferenza e l’incapacità di condividere una situazione, più difficile e meno risposte concrete si daranno ad essa.

Quando la disabilità invade una famiglia, travolge anche ogni aspettativa di vita futura di ogni loro componente.

Una linea invisibile attraversa quelle pareti e si delinea all’orizzonte, portando con sè: solitudine e silenzio.

La solitudine perché dettata dall’orgoglio, dalla paura del confronto, dal bisogno di evitare a se stessi l'imbarazzo, la pietà e la commiserazione degli altri.

Il silenzio per permettere al dolore di adagiarsi sulle sponde della vita e ascoltare quella sensibilità nuova che, inevitabilmente, trasformerà ogni familiare e darà loro una nuova identità.

Inizia presto un distacco che include un pericolo incombente: la separazione tra due mondi che, inevitabilmente iniziano a disconoscersi.

Una realtà consapevole che fa scaturire nei genitori il convincimento che la disabilità non attraversa la società, non fa mercato, importa solo se ha una ricaduta economica in chi la gestisce. Un’amara consapevolezza, che scatena e produce reazioni opposte, da una parte si cerca una delega, una protezione per sopperire alle proprie lacune, arrendendosi ed ostacolando in questa sua passività chi ha invece ha voglia di lottare, dall’altra c’è chi invece reagisce con intelligenza, uscendo fuori da questa insidia, allargando le proprie conoscenze e portando idee innovative, che pochi riescono a capire e condividere.

Il disabili day non va festeggiato, non è punto di arrivo, di promesse o di ricordi, ma momento di riflessione e apertura interiore per portare tutti a prendere visione di questa realtà, per discutere e presentare la disabilità come elemento sociale positivo, valore aggiuntivo alle nostre azioni e avviare una nuova cultura di condivisione e inclusione sociale per una più consapevole percezione di essa

Ci auguriamo, con il nostro lavoro, di sfondare il muro della non conoscenza, del silenzio, che di certo, per la disabilità è il male più subdolo e invasivo.

Luigina Perricone

Associazioni AFDA ed EISA

 


 

La morte in culla o “morte bianca” (Sudden Infant Death Sindrome, SIDS ), è considerata una delle esperienze più dolorose e sconvolgenti che possa verificarsi in una famiglia. Colpisce un lattante apparentemente sano in condizioni di pieno benessere ogni 1000-2000 nati. Rappresenta la prima causa di mortalità nei paesi industrializzati da un mese ad un anno di vita.

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) molte di queste morti, per la maggior parte “invisibili”, sono evitabili.

L’applicazione di semplici regole di accudimento: far dormire i bambini sempre in posizione supina, evitare il fumo in gravidanza e dopo, evitare le temperature alte, far dormire il lattante nella stessa stanza ma non nello stesso letto dei genitori, l’uso eventuale del ciuccetto ad allattamento ben avviato e la promozione dell’allattamento materno, hanno consentito di ridurre drasticamente la mortalità per SIDS fino al 50-60%.

Per avviare una campagna di sensibilizzazione per le famiglie e gli operatori, per contrastare l’esposizione a fattori di rischio ambientali e promuovere l’adozione di comportamenti e stili di vita corretti e responsabili, al fine di ridurre l’incidenza di queste morti inaspettate; il 28 settembre 2012, presso l’aula Polifunzionale dell’Ospedale Buccheri La Ferla Fatebenefratelli di Palermo, in via Messina Marine 197, inizio dei lavori alle ore 8,30, si svolgerà il primo congresso regionale su “SIDS ALTE (morte in culla e neonati ad alto rischio di defaillance cardio respiratoria e quindi di morte improvvisa).

Realtà e proposte in regione Sicilia. Presentazione del progetto SIDS”. Il convegno è organizzato dal direttore del dipartimento Materno Infantile dell’Ospedale Buccheri La Ferla, dott.ssa Maria Rosa D’Anna, dal Direttore dell’UOC di Neonatologia e Pediatria, dott. Bartolomeo Spinella e dal neonatologo e responsabile del Centro SIDS, dott. Raffaele Pomo.

Parteciperanno inoltre, l’Assessore alla Salute della Regione Sicilia, dott. Massimo Russo e i più grandi esperti a livello nazionale del settore, oltre alle Associazioni di volontariato e i referenti dei progetti obiettivi su SIDS ALTE degli ospedali e del territorio siciliano.

Il centro SIDS dell’ospedale Buccheri La Ferla Fatebenefratelli è l’unico Centro della Sicilia. All’interno del convegno verranno presentati i progetti obiettivi dell’Assessorato alla Salute volte alla riduzione del rischio SIDS e verrà proposto il network ad alta professionalità per la riduzione del rischio SIDS che coinvolgerà ospedali e territorio.
“Al fine di ridurre la mortalità neonatale e del lattante in Sicilia, abbiamo prodotto un opuscolo informativo multilingue (in italiano, francese, inglese, arabo, rumeno, cinese, bangladesh) destinato ai genitori, che contiene le regole di accudimento – spiega il dott. Raffaele Pomo, - sulla riduzione del rischio della morte in culla,.

L’opuscolo è a disposizione di tutti i Centri nascita della Sicilia affinchè si possa creare una campagna informativa in modo capillare ed omogeneo”.
 

Questa “sfida a mani aperte”, che intendo raccontarvi, ha avuto inizio nel mese di Dicembre del 2009 in occasione della festività del Natale: è stata organizzata una festa durante la quale sono stati distribuiti indumenti appena acquistati ed alimenti.

L’Associazione “Da Generazione a Generazione” è stata costituita nel mese di Luglio del 2010; si tratta di una Onlus senza scopi di lucro, nata per dare una forma giuridica ed ufficiale alla sensibilità che attraversa tutte le iniziative avviate dalla sua presidentessa, signora Angela Pergolizzi, sostenuta dalla sorella, signora Cetti Pergolizzi e da altre operatrici che prestano la loro attività in modo più saltuario ma dando un contributo prezioso ad un percorso di grande solidarietà.

Il target dell’Associazione riguarda bambini che provengono da famiglie disagiate del territorio di Bagheria, bambini che frequentano, perlopiù, la “Scuola Elementare G. Bagnera”.

Parliamo di famiglie che versano in condizioni di forte deprivazione economica e socio-culturale, i cui figli vivono senza grandi occasioni ricreative e poco seguiti da un punto di vista scolastico.

A partire da un’analisi dei bisogni di questi nuclei familiari l’Associazione si è impegnata a garantire raccolte alimentari distribuendo ogni due settimane beni di primaria necessità ed ha cominciato nell’Autunno del 2010 ad offrire un servizio di dopo-scuola a questi bambini che necessitano di un aiuto nello svolgimento delle attività didattiche.

Il reperimento delle risorse alimentari è realizzato attraverso raccolte organizzate dalla stessa presidentessa dell’Associazione ed attraverso l’aiuto di alcuni donatori che sostengono le iniziative in oggetto.

Durante l’estate del 2011 è stato organizzato dall’Associazione il suo primo Tempo d’Estate coinvolgendo i bambini, già seguiti durante l’anno scolastico, anche nei mesi estivi con la finalità di offrire loro uno spazio pomeridiano durante il quale venivano proposte attività sportive, ludiche e ricreative di vario genere.

Già l’estate scorsa il Comune ha reso disponibile il giardino dell’Asilo Comunale per accogliere questi bambini.

Anche il sindaco dott. Vincenzo Lo Meo si è recato a conoscere l’iniziativa, i suoi operatori ed i bambini accolti e si è mostrato favorevolmente colpito dallo spirito che ispira le attività in oggetto e che muove la passione che vi sta alla base.

Quest’anno si è data ai bambini l’opportunità di andare in piscina a Villa Rammacca grazie alla generosità di chi la gestisce che ha proposto un costo accessibile all’Associazione.
Essendo la signora A. Pergolizzi attenta alla sfera psico-affettiva dei minori coinvolti nelle attività e delle loro famiglie, sono stata contattata in qualità di psicologa per sostenere l’organizzazione tecnica delle iniziative e per prestare una consulenza (che ho voluto volontaria) al fine di orientare gli operatori rispetto all’approccio da adottare con i bambini ed al fine di comprenderne meglio i bisogni.

Attualmente i bambini che partecipano alle attività di cui sopra variano dai dodici ai quindici con un’età compresa tra i cinque ed i tredici anni.

Sono bambini con un livello di autostima molto basso, poco abituati a raccontarsi ed a sentirsi soggetti attivi nella relazione con l’Altro.

Tra gli obiettivi dell’Associazione oltre a garantire una pronta e costante risposta ai beni materiali c’è il desiderio di creare una vicinanza a questi minori ed alle loro famiglie al fine di diventare per gli stessi un punto di riferimento affidabile nei momenti di difficoltà.

Ho parlato di sfida perché di ciò si è trattato: entrare, gradualmente, in punta di piedi, in rapporto con famiglie disagiate e con i loro figli a partire dal bisogno più pressante (quello materiale) per creare, successivamente, un rapporto di fiducia e di vicinanza sempre più profondo nel rispetto dei tempi e delle persone.

Una sfida”, dunque, “a mani aperte”, aperte verso chi ha bisogno di aiuto, aperte verso chi vuole offrire sostegno al percorso avviato con questi bambini e con le loro famiglie.

Dott.ssa Giuliana Larato
 

Il tradimento può essere tradimento della coppia? Può funzionare da sintomo di un malessere all’interno della coppia e “salvarla” dalla separazione?

Torniamo a parlare del tradimento con la piena consapevolezza che in molte situazioni si tradisce non a causa di una psicopatologia di fondo ma più “semplicemente” per la voglia di cambiare, di provare altro, spinti dal perenne conflitto tra stabilità e novità, tra il desiderio primordiale di fare “i nomadi” e quello successivo di “metter sù casa”.

Intendo, a proseguimento di quanto scritto nel precedente articolo, soffermarmi sul tradimento come segnale di un malessere le cui ragioni ed origini vanno rintracciate all’interno della coppia.
Si tratta, nella maggior parte dei casi, di tradimenti agiti, soprattutto, dagli uomini quando le mogli sono in gravidanza, quando allattano, quando sono coinvolte, emotivamente e praticamente, dall’accudimento dei propri figli.
Ed, ancora, tradimenti di questo genere accadono in coincidenza con momenti di crescita importanti, soprattutto, dei primogeniti maschi (l’ingresso all’università, le prime storie sentimentali importanti), momenti che le mamme vivono con un coinvolgimento che le allontana da qualsiasi altro pensiero.
Uomini e donne con una fragilità psicologica o con storie familiari caratterizzate da vuoti, da abbandoni, da mancanze affettive possono rivivere l’abbandono e cercare altro. Anche le donne, infatti, possono sentirsi trascurate da un marito che sia, del tutto, impegnato al lavoro.
Torniamo agli uomini che vivono il senso di trascuratezza descritto. Questi ultimi potrebbero rispondere al suddetto disagio con una dipendenza da sostanze o anche dal lavoro o sviluppando malattie psicosomatiche che costringano le mogli ad occuparsi di loro. Potrebbero rispondere alla propria insoddisfazione investendo sé stessi totalmente nel rapporto con la figlia (risposta il cui prezzo verrebbe pagato da quest’ultima).
Il tradimento come fuga da queste situazioni è una delle possibili risposte, forse, anche meno grave e con ripercussioni meno pesanti delle alternative citate.
Chi tradisce offre, in questo senso, una opportunità al rapporto, richiama il partner, manda segnali ben chiari, per quanto inconsci, del suo essersi sentito “tradito”, escluso e messo da parte.
Il tradimento in sé non garantisce nulla di buono alla coppia piuttosto è la capacità di vivere insieme emozioni tanto belle quanto brutte, senza negarle, senza metterle a tacere che si esprime come volontà di creare un rapporto che funzioni.
Chi tradisce, del resto, comunica il proprio disvalore nel rapporto con il partner e cerca conferme rassicuranti rispetto al Sé con un amante che rimanda unicamente trasporto, passione, emozioni coinvolgenti e scevre dalle tensioni della quotidianità.
Si intuisce che è un tradimento finalizzato a non perdere l’Altro, a comunicare con lui/lei pur nel rischio di una rottura.
Il tradimento in questione va, dunque, visto come tradimento della coppia e nella coppia; può, di fatto, funzionare da “sintomo” di un malessere da rintracciare all’interno della coppia e “salvarla” dalla separazione.
Una corretta psicoterapia può aiutare la coppia a rispondere al richiamo del “sintomo” del tradimento e alla sua natura provocatoria, generando nella coppia, in alcuni casi, una maggiore solidità, una competenza comunicativa più funzionale, a volte, anche una veste di rinnovata felicità.
Non è facile, però, superare le ferite di chi è stato tradito e sente di avere perso valore nel rapporto con l’Altro e, soprattutto, con sé stesso. Da qui la necessità di riconquistare fiducia in sé prima che nell’Altro.
Chi è stato tradito per “salvare” la coppia avverte, comunque, un senso di fallimento nel non avere subito riconosciuto i segnali di disagio all’interno del legame di coppia, e percepisce un attacco alla stabilità, alla sicurezza che pensava di trovare nel “noi”.
Anche chi tradisce vive un forte senso di fallimento e si sente deluso da sé stesso e dall’incapacità di trovare strategie meno dolorose e più consapevoli alla insoddisfazione legata al rapporto con il partner.
In alcuni casi, dunque, tradire serve a rivedere gli aspetti che non funzionavano e a modificarli e permette di non perdere ciò che di positivo si era costruito nel tempo.
Piuttosto che tradire, soffrirne le conseguenze drammatiche che ne possono derivare e pagare una psicoterapia di coppia, sarebbe, senz’altro, meno dispendioso, su tutti i piani, conoscere a fondo le proprie emozioni, essere capaci di comunicarle in modo deciso ed inequivocabile nonchè avere l’abitudine ad ascoltare “la ragione delle emozioni” proprie e del compagno.

IMMAGINE: “Psiche e Amore” di Bouguereau.
 

Vorrei un pulpito in mezzo ai Quattro Canti, così da poter visionare ciò che intorno accade e percepire quel che di storico c'è in un punto nevralgico di una capitale dalle due facce. 

Laddove si diramano quei ' quattro mandamenti' nati in epoca spagnola attraverso quello che gli storici d'oggi chiamano 'taglio di via Maqueda', e passati alla storia per quel che “Storia“ avrebbe dovuto non essere. 

Un centinaio di anni a seguire, a pochi metri da quell'occhio onnisciente che è Piazza Vigliena sorge il Convento dei Padri Teatini poi sede della Facoltà di Giurisprudenza dell'Università degli Studi di Palermo. 

Varcando quel porticato che da fronte a Piazza Bellini, splendente della Chiesa della Martorana e delle cupole rosse di San Cataldo, mi ritrovo in un loggiato che di “Storia“ ne ha da vendere. 

E' afoso il caldo in “atrio” in quel di luglio, la stessa afa che Paolo cercò di spazzare con una folata di libeccio la cui gradevolezza avrebbe reso i volti più sorridenti che sbuffanti. 

Vi potremmo trovare gli eredi tra il colonnato, forti di quello che questa nostra storia recente e contemporanea gli ha dato, tolto e ancora, ridato. 

Sento quella forte cadenza sicula, rimembra quei quartieri e quelle borgate come la Kalsa, o il Capo, dove lo spirito d'appartenenza è forte, scandisce un linguaggio giuridico senza molti fronzoli, é diretto, sincero, a dir poco pungente, non ha paura di essere ascoltato o sentito, non ha paura di dire “NO”, ha voglia di imparare ad amare ciò che non gli piace per poterlo cambiare. 

E ancora sorrisi tra colleghi e/o amici immortalabili in una foto in bianco e nero come una polaroid faceva negli ottanta. 

Anni ottanta, quelli delle Lacoste, pelle di quell'anima che tanto diede a questa terra senza chiedere nulla in cambio, pelle che molti giovani e non-giovani, non possono comprare per mancanza di danaro, ma che hanno il coraggio di cucirsela addosso. 

Non ho più visto del fumo nero in città, solo quello emanato dalla Conca d'Oro dovuto al caldo torrido. 

Tornando ai Quattro Canti mi rendo conto che le mie gambe hanno fatto tanta strada. 

Aria di sollievo, un sorriso dovuto ad un incontro mai avvenuto fisicamente, ma dentro c'è, c'è stato e ci sarà, non so se in una Biblioteca Comunale o in un bar. 

Ciao Paolo, è un piacere incontrarti, sono passati vent'anni eppure sembra ieri.

A Paolo Borsellino

 

                                                                                                              Valerio Lo Jacono 

E’ormai risaputo che esiste una comunicazione continua tra il feto e la sua mamma.

Numerose ricerche scientifiche mostrano che il feto ha una sua identità psicologica ed emotiva ed è una creatura competente da molti punti di vista.

Immerso nel sacco amniotico, dentro la pancia della madre, protetto e cullato, il feto si sviluppa inondato da continue emozioni: stimoli provenienti dall’ambiente intra-uterino così come da quello extra-uterino.

C’è chi si immagina il feto come privo di qualsiasi competenza, convinto che il bambino esista solo al momento della sua nascita.

Di contro, c’è tutto un percorso che prepara le competenze di un bambino e che ci illumina sulle capacità del feto di percepire stimoli, positivi e negativi, di elaborarli e di reagire agli stessi sia con il movimento sia con l’alterazione di alcuni parametri come il battito cardiaco.

Non ci sorprende il fatto che il feto senta lo stato d’animo della madre e ne risenta a sua volta, ma viene spontaneo domandarsi come ciò possa accadere. Alla base di questa comunicazione di emozioni c’è un passaggio di sostanze chimiche: se la madre è rilassata, ciò si esprimerà nel rilascio di endorfine, dette “gli ormoni della felicità”, se la madre è ansiosa, agitata, verrà, probabilmente, rilasciato cortisolo, un ormone che susciterà nel feto tachicardia ed agitazione motoria.

Alcune ricerche dimostrano che un bambino che ha percepito durante la gravidanza la gioia e l’entusiasmo della madre di portarlo dentro, svilupperà, con molte probabilità, un sistema immunitario più forte; di contro, alcune malformazioni congenite sono state collegate da studi recenti allo stato psicologico della madre in attesa.

Non lasciatevi allarmare da queste informazioni se avete vissuto una gravidanza difficile: potrete recuperare costruendo con il vostro bambino un dialogo intenso e restituendogli, in modo opportuno e con consapevolezza, le emozioni che avete vissuto, quando lo aspettavate.

Il feto, dunque, è esposto ad emozioni continue ed, a sua volta, induce nella madre stati emozionali rilasciando anche lui sostanze chimiche.

Si tratta di un circolo in cui c’è una reciprocità ed uno scambio che è alla base della crescita di un bambino sicuro rispetto ai legami avviati già dentro la pancia.

Indiscutibile l’effetto di benessere che arriva ad una madre quando sente i movimenti del feto ed impara a comunicare con lui attraverso gli stessi.

Anche i papà conoscono questa esperienza e possono entrare in contatto con il proprio bambino carezzando la pancia della partner e stando vicini alla stessa con l’obiettivo di aumentarne lo stato di benessere. I padri, dunque, non entrano in gioco quando cessa l’allattamento, come molti pensano, ma possono ritagliarsi uno spazio di vitale importanza per le loro compagne e per i loro bambini avviando, al più presto, una comunicazione con il feto (attraverso la voce, le carezze, i colpetti sulla pancia ecc…).

In questo scambio di emozioni è fondamentale parlare al feto, esporlo alla voce delle figure per lui più importanti.

Sembrerà banale ma non lo è affatto: esporre il feto alla voce ha effetti sociali e neuronali.

L’esposizione alla voce della madre facilita l’attaccamento del bambino alla figura che lo accudirà in modo preferenziale (effetto sociale) ed incoraggia lo sviluppo della corteccia uditiva (effetto neuronale)favorendo, inoltre, la tendenza presente nei neonati ad orientarsi verso la voce umana.

Si è, addirittura, ipotizzato che il feto sogni ciò che sogna la madre, perché fa esperienza dell’emozione materna grazie alla scarica ormonale collegata al sogno ed in virtù del particolare coinvolgimento emotivo esistente tra una madre ed il bambino che porta in grembo.

Immagino il volto soddisfatto e contento di molte mamme e di molti papà che, pur senza avere informazioni scientifiche, hanno sentito il bisogno di parlare al proprio bambino, di inondarlo di emozioni, carezze e dolci parole, favorendone in modo naturale lo sviluppo, convinti nel profondo che esiste una comunicazione con il feto già da quando si trova immerso nel sacco amniotico: un vero e proprio “sacco di emozioni”.

E, consentitemi, di dedicare questo “sacco di emozioni”, con tutta la gioia della sua attesa e del suo arrivo, alla mia Gloria che oggi compie due anni. 

 

                                                                                                                  Giuliana Larato

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