Cultura

Io non sono un critico d’arte: a scrivere queste righe sulla mostra di sculture di Salvo Pellitteri a palazzo Butera che si chiuderà domenica 26 febbraio, mi spingono il culto della memoria del padre Peppino e le sensazioni che la visita alla mostra di Salvo Pellitteri mi ha evocato.

Ho avuto l’onore di aver conosciuto il maestro Giuseppe Pellitteri per una mostra che organizzammo assieme alla Provincia regionale di Palermo a Palazzo Aragona Cutò; io, allora giovane assessore, nominato da pochi mesi, rimasi positivamente sconvolto dalla freschezza della sua opera e soprattutto dalla energica vitalità che sprigionavamo i suoi occhi accompagnati dai gesti scenografici delle mani.

Giuseppe Pellitteri era una persona modesta; parlava con grande pacatezza, ma con la forza serena di chi è sorretto da una grande convinzione e capacità espressiva.

Era meraviglioso vedere all’opera le sue lunghe mani quando con sapienza e metodo plasmavano la creta dandole vitalità, grazia e bellezza o riuscivano a modellare, a dare forma a pietre e legno tirando fuori l’anima da materiale inanimato traducendole e trasformandole in opere d’arte ricche di “sensi”.

Salvo Pellitteri certamente è riuscito a raccogliere il testimone che il padre negli anni aveva cercato di trasmettere a qualcuno dei suoi figli; entrando a Palazzo Butera, mi sono reso conto che Peppino, ovunque oggi si trovi, è riuscito a  realizzare il suo sogno: trasfondere cioè nel figlio non solo quel suo insopprimibile bisogno di dare un soffio di vita, sia pure apparente, alla materia ma anche per consegnare a chi osservava il suo lavoro, un messaggio.

Sì, perché anche Salvo Pellitteri riesce a trasmettere a tutti noi sensazioni vere e ricche di bellezza e passione, capaci di trasportarci sul filo dei sogni e della memoria, verso quell’infinito che ci affascina e ci stordisce.

L’opera artistica di Salvo Pellitteri si innesta nel campo espressivo dell’umanità e in particolare nel mondo della donna, un mondo pieno di sensualità, di estasi ma soprattutto avvolto nel mistero della vita che travalica lo spazio e il tempo, rendendo le figure stesse animate dal soffio della vita stessa.

Sculture come “Ragione e passione” che trasmettono l’apparente ed eterna dicotomia tra fede e ragione o tra cuore e ragione, ma che vede invece fondersi in tutt’uno nell’opera entrambi i corni del dilemma, mostrando i reconditi segreti della vita terrena, ed ovviamente le nostre “contraddizioni” che possiamo facilmente scomporre in virtù e debolezze.

Nell’estasi si possono ritrovare gli stessi elementi caratteristici dell’opera precedente, aggiungendo però l’idea del piacere inteso come anello di congiunzione tra l’ultraterreno ed il concetto di “materialità” di questo mondo.

Salvo inoltre è riuscito a fondere gli elementi di un sapere che ha sempre coltivato, la matematica, scienza in apparenza lontana da ogni espressione artistica, portandoli a  sovrapporsi e a collimare con le regole interne dei sensi dell’uomo che invece non sono “normate” e riconducibili a schemi e formule precostituite.

Credo che la forza espressiva di tutte le opere di Pellitteri, nasca dalla continua ricerca dell’infinito come momento di crescita e di autoanalisi, che porta ad interrogarci sui grandi temi della nostra esistenza e sui nostri limiti e contraddizioni..

Grazie a Peppino e a Salvo, per averci richiamato tutti ad essere più attenti ai messaggi che l’arte ci invia in codice, ma che dobbiamo essere noi con la nostra sensibilità e la nostra volontà a decrittare e comprendere!

Sta alla nostra comunità riconoscere i suoi figli migliori per tributargli i dovuti meriti affinchè i nostri figli possano ricordare e lottare contro l’oblìo del tempo.

Apprezzabile pertanto la iniziativa dell’amministrazione e dell’assessore Francesco Cirafici in particolare, che nella prestigiosa cornice di palazzo Butera hanno voluto ospitare una mostra di Salvo Pellitteri che è anche un omaggio al padre Peppino.

Mi piace dire che per una Bagheria migliore, tutti dobbiamo imparare a saper andare oltre gli steccati, e anche per questo serve visitare la mostra di Salvo, proprio perché ci lascia intendere al di là delle piccinerie e delle divisioni conta l’unicità dei valori pregnanti la nostra umanità.

Biagio Sciortino
 

Pietro Miosi è mio amico. 

Ha un impiego al Comune ma, nelle ore libere, gira le botteguzze dei paesi vicini dove porta formaggio, salame, pelati in scatola e altra roba. Morto il suocero, ne aiuta infatti la moglie a mandare avanti il negozio di alimentari all’ingrosso. A volte, durante quei giri, io l’accom- pagno.

Con Pietro si sta spesso insieme. Domenica è venuto da me per andare a riempire l’acqua in un posto che lui conosce sulla strada per Caccamo. In macchina abbiamo parlato anche di cose che gli rammentarono le vampe di San Giuseppe.

E si ricordò di quando, ragazzo, con gli altri, la sera della vigilia, correva da un quartiere all’altro per vedere i falò più grandi. -Viva San Giuseppe! Viva!- gridò allora con allegria. –Viva San Giuseppe! Viva!- Ma presto diventò serio e si lamentò che non ci sono più quartieri ma soltanto palazzi a tanti piani e che  ormai ne fanno pochi falò la vigilia di San Giuseppe.

Quando arrivammo, alla fontana c’era un uomo che riempiva il primo di una lunga fila di bidoncini di plastica. Sistemammo perciò i nostri, uno accanto all’altro, sul ciglio della strada e ci allontanammo un poco per parlare. Allora disse che non ci si poteva più vedere in un palazzo a tanti piani e che gli piaceva uscire dal paese con la macchina, magari con un amico, come stavolta era stato con me, per parlare.

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Dopo un quarto d’ora l’uomo non aveva ancora finito di riempire i suoi bidoncini e cominciammo allora ad insultarlo senza farci però sentire.

Era un gioco: un insulto diceva lui e uno ne dissi io e quando esaurimmo tutti gli insulti che conoscevamo ne inventammo di nuovi. Così un insulto inventava lui e uno ne inventai io.

Quando l’uomo se ne fu andato, era già un pezzo che non potevamo tenerci dal ridere e mentre riempivamo la nostra acqua, ci guardavamo in faccia e scoppiavamo a ridere. 

In macchina, al ritorno, parlammo di tante altre cose. 

Biagio Napoli

(Pietro Miosi è morto oggi nella sua casa di Bagheria all'età di 71 anni. I funerali si svolgeranno venerdì 17 febbraio 2012 alle 15,30 nella Chiesa del Carmelo di Bagheria)

 

Venerdì 10 febbraio alle 10.30 presso il Museo civico "Baldassarre Romano" di Termini Imerese promosso con il Dipartimento dei Beni culturali dell'Università di Palermo e con il patrocinio del Comune e del  Museo "Baldassarre Romano, la R-evolution presenterà il Laboratorio di archeologia sperimentale.

Interverranno:

Angelo Campagna, assessore alla cultura del comune di Termini Imerese

Oscar Belvedere, docente dell'Università di Palermo

Luca Sineo, Università di Palermo

Francesca Spadafora, Parco archeologico Himera

Stefano Vassallo, Sovrintendenza BB.CC. e AA. di Palermo

Salvatore Currieri, I.C.. "Paolo Balsamo" di Termini Imerese

SCHEDA su  R-evolution

I soci della R-evolution operano nel campo dei Beni culturali, con particolare riferimento ai Beni archeologici.
La R-evolution nasce dalla volontà dei suoi soci di costituire un gruppo di ricerca interdisciplinare aperto al mondo della divulgazione scientifica e della didattica.
La prima proposta concreta della R-evolution, nel campo della didattica, si è concretizzata nella realizzazione di un laboratorio di archeologia sperimentale all'interno del Museo Civico "Baldassare Romano" di Termini Imerese, grazie alla disponibilità ed alla ospitalità del Museo e dell'Amministrazione Comunale.

Gli studenti, nell'ambito del laboratorio, avranno la possibilità di partecipare ad uno scavo archeologico simulato, alla documentazione e schedatura dei reperti, alla realizzazione di repliche sperimentali di manufatti antichi (strumenti in pietra, ceramiche preistoriche) e ai loro possibili utilizzi.

Inoltre vengono illustrate le modalità di sfruttamento delle faune nell'antichità, fornendo anche le chiavi di riconoscimento del sesso e dell'età di alcuni mammiferi, necessarie per una corretta interpretazione dell'economia dei siti preistorici. Il laboratorio, calato nella realtà storico-archeologica rappresentata dalle collezioni esposte presso il Museo, è fortemente legato al territorio siciliano e alla preistoria termitana in particolare.

I componenti della R-evolution svolgono attività di ricerca rispettivamente nel campo dell’Archeologia e della Paleontologia, presso i Dipartimenti di Beni Culturali e di Geologia e Geodesia dell'Università di Palermo.

i componenti della coop. sono:
Prof. Oscar Belvedere, Ordinario dell'Università di Palermo;
Dott.ssa Vincenza Forgia, Dottore di ricerca in Metodologie conoscitive per la conservazione e la valorizzazione dei Beni Culturali;
Dott.ssa Daria Petruso, Paleontologa;
Dott.ssa Giuseppina Scopelliti, Archeologa medievista;
Enrico Salvatore Pagano, laureando in Beni Culturali Archeologici presso l'Università di Palermo;
Giovanni Di Simone, laureando in Beni Culturali Archeologici presso l'Università di Palermo.
R-evolution

All’inizio degli anni ‘60 arriverà a Bagheria Roberto Leydi. Ecco come di quell’arrivo ne scrive recentemente Ferdinando Scianna: “Leydi lo avevo incontrato una sera nella piazza Madrice di Bagheria, inviato dell’ “Europeo”, mentre realizzava un reportage sui cantastorie siciliani. Cicciu Busacca aveva riempito la piazza, Duilio Pallottelli lo fotografava. Fotografavo anch’io e dopo, insieme a Ignazio Buttitta e Busacca e Leydi e il poeta Romeo, vissi in una osteria del paese, tra racconti, canti e recite di poemi, una serata memorabile e fondatrice per la mia formazione culturale”. 

(1) Di quella serata a Bagheria, importantissima per il futuro professionale e artistico del nostro fotografo (dirà ancora: “Nel settembre del 1967 mi assunsero all’ “Europeo”, introdotto da Roberto Leydi, con cui avevo mantenuto i contatti da quella memorabile serata a Bagheria, e che era diventato mio grande amico e maestro”), (2) aveva scritto anche lo stesso etnomusicologo dovendo parlare di Ignazio Buttitta e di Cicciu Busacca, del poeta e del cantastorie.

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Buttitta aveva conosciuto Busacca durante uno spetta-colo in paese, a Bagheria, iniziando da allora un sodalizio artistico che li portò in giro per il m ondo. Leydi aveva conosciuto i due a Milano, nel 1956, al piccolo teatro di Giorgio Strehler in occasione di uno spettacolo nel quale avevano recitato e cantato il Lamentu pi la morti di Turiddu Carnivali (che esce appunto nel ’56), sindacalista socialista di Sciara ucciso dalla mafia. 

L’episodio svoltosi a Bagheria raccontato da Ferdinando Scianna e, vedremo ora, da Roberto Leydi, deve essersi verificato almeno nel 1963, anno di pubblicazione di Lu trenu di lu suli. Ecco quello che ricorda Leydi: “Emerge prepotente (e anzi aggressiva) la memoria (ancor oggi così viva) di una sera in una pizzeria di Bagheria ( e c’era anche, molto giovane, Ferdinando Scianna oltre che Ignazio Buttitta ) con Cicciu Busacca che cantava appunto Lu trenu di lu suli con la voce che ora si dispiegava ed ora si rompeva ora s’apriva nel canto ed ora si chiudeva in uno straordinario recitar-cantando e le lacrime agli occhi.

E gli occhi erano anche quelli di quanti quella sera erano con noi in pizzeria e di quanti non erano che normali clienti, lì capitati per mangiare una pizza. Ricordo che mentre la storia disgraziata dello zolfataro di Mazzarino si sviluppava subito mi tornarono in mente le parole dedicate da Garcia Lorca alla grande Nina De Los Peines, in un’altra straordinaria notte di Granada”. 

(3) L’osteria in cui l’episodio si svolse, e di cui scrive Ferdinando Scianna, diventa in Roberto Leydi una pizzeria; ma c’era Ignazio Buttitta e il poeta frequentava la trattoria della zza’ Maria, in una traversa della via Di Pasquale, a due passi dai “Pilastri”, per la quale inventa: “Zzà Maria cu trasi s’arricria/e cu nun trasi menu camurria/e cu nun havi picciuli passia”. E allora è lì che l’episodio si svolse.  

Sulla trattoria abbiamo una testimonianza di prima mano, quella cioè di Nino Morreale che, scrivendo del modo in cui lo aveva conosciuto e frequentato, racconta come Carlo Doglio pranzasse e cenasse “nella sua stessa trattoria, che era quella gestita da mia nonna e da mio padre”. 

E continua: “Quello fu negli anni sessanta e settanta un luogo particolare. Due erano probabilmente le calamite che attira-vano un certo tipo di persone, la bontà del cibo voglio credere fosse la prima, l’altra era certamente Ignazio Buttitta. Era per trovare Ignazio che venivano a Bagheria e Ignazio li portava nella mia trattoria". 

In quel locale si sono avvicendate alcune delle personalità più interessanti della cultura italiana e non solo.

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Il poeta Evtuscenko e lo scrittore Konstantin Simonov, il pittore cileno Sebastian Matta, Giorgio Amendola, Giancarlo Pajetta e Sandro Pertini, Cesare Zavattini e Cesare Brandi, Il grande teologo svizzero Hans Kung e il musicologo Luigi Rognoni, il glottologo Chicco Ambrosini, Ornella Vanoni e il grande cantastorie Cicciu Busacca, Guttuso e Rosa Balistreri, Paolo Toschi e Roberto Leydi, Paolo Boringhieri, Leonardo Sciascia e Vincenzo Consolo, Bruno Caruso ed Enzo Sellerio, Tono Zancanaro e Pompeo Colajanni, Giosetta Fioroni e Giulio Carlo Argan, Maurizio Calvesi e Antonio Pasqualino, Dario Fo, Turchiaro, Micacchi e potrei continuare a lungo. 

Per tanti di noi che gironzolavamo nei paraggi fu un vero tour de force emotivo e culturale negli anni decisivi della crescita, per chi voleva crescere”. 

(4) Di Maria Paradiso, ’a zzà Maria, anima della piccola e frequentatissima trattoria, c’è una foto di Ferdinando Scianna che così la ricorda: “Quando nacque la mia prima bambina venne a vederla. “Che bella, che bella! Nuda la voglio vedere, nuda”.

La spogliarono. Lei tirò fuori un po’ di zucchero che s’era portata in tasca e glielo sparse addosso. Za Maria ma che fa? E’ uscita pazza? “Zitta, zitta, lascia fare che certune il miele pare c’abbiano, altro che zucchero”. (5)

E’ ancora Ferdinando Scianna a raccontarci dell’arrivo a Bagheria (da Partinico) di Carlo Doglio. Scrive Ferdinando Scianna: “…E poi, una sera, la grande sorpresa . …Carlo mi disse che da come glielo raccontavo doveva essere un posto maledettamente interessante questa Bagheria. 

Quasi quasi non gli sarebbe dispiaciuto di venirci a vivere. Sarebbe stato possibile trovargli una casa? Gliela trovai subito naturalmente. …C’era da organizzare il trasloco.

Con l’aiuto di Mummino Morreale, il figlio della za Maria della mitica osteria, il padre di Nino, trovammo uno che aveva un camioncino e che per un piccolo prezzo si sarebbe incaricato del trasporto di quelle poche cose. …Cose ce n’erano pochis- sime, ma i libri, i libri pareva non finissero mai. Uscivano da ogni buco. Cartoni e cartoni. Forse è quelli che mangia, mi disse l’uomo, impressionato. E così Carlo sbarcò a Bagheria”. (6) Quello sbarco dovette avvenire nel 1964 se è vero che l’incontro tra i due si verificò l’anno precedente quando Ferdinando Scianna, già “fotografo”, s’accompagnò a Pietro Buttitta in giro attraverso i paesi della Sicilia a svolgere un’inchiesta ( e quindi anche per Partinico dov’era Carlo Doglio ), inviato de l’“Avanti!”, e se è vero che Nino Morreale ricorda di avere conosciuto e frequentato Carlo Doglio a Bagheria grosso modo tra il 1964 e il 1970, tra la fine del suo lavoro a Partinico e l’inizio dell’insegna- mento a Venezia. 

altScrive ancora Ferdinando Scianna: “Per noi ragazzi di Bagheria l’arrivo di Carlo Doglio cambiò molte cose. …Certo, noi eravamo, io di certo, ignorantissimi.

Ma Carlo impressionava chiunque per la ricchezza e poliedricità dei suoi interessi. Parlava di cinema con la cultura e la sottigliezza di uno storico e critico di  cinema, e così di letteratura, filosofia, politica, sindacato, urbanistica. Una miniera. Ogni volta avevi l’impressione di arrivare al nocciolo della questione, all’idea nuda, appunto”.

(7) Ma Ferdinando Scianna, nonostante la vivacità culturale di Bagheria e quegli incontri ( con Leonardo Sciascia aveva addirittura fatto Feste religiose in Sicilia ), presto, cioè nel 1966, fuggirà via dal suo paese. 

Qui c’era spazio per fare l’ingegnere o il medico; se uno, come il nostro, aveva per sé un altro progetto, per esempio fare il fotografo, ma non di matrimoni o battesimi, Bagheria ( la Sicilia ) non era cosa. Riuscì nel suo progetto e, col tempo, ovviamente cambiò come mutata era ormai Bagheria: il ritorno era diventato doppiamente impossibile. Si creò per lui una condizione di sradicamento totale ma persisteva, immobile, nella memoria, il mondo dell’adolescenza e della prima giovinezza. 

Nella memoria. Ma, anche, nelle fotografie a quel tempo scattate e conservate in una cassettina di legno che aveva contenuto dei vini.

Quelle fotografie potevano servirgli per realizzare per Bagheria quello che Leonardo Sciascia, con il libro Occhio di capra, aveva fatto per il suo paese d’origine, Racalmuto.

Ma gli servivano anche per chiudere definitivamente la pagina del passato, raccontandolo. Scrive infatti: “Magari uno fugge pieno di rancori, pieno di nostalgie e di “non ci tornerò mai più”, pieno di amici che muoiono, di luoghi che vengono distrutti, di amori irripetibili, di sapori che ti accompagnano, di dialetto che ti canta dentro; insomma non te ne esci. Probabilmente la cosa migliore è cercare di fare i conti con tutto questo”. 

(8)A tempo debito, cioè nel 2002, trascorsi ormai decenni da quella partenza, con la scrittura e quelle fotografie, venne fuori un libro dal titolo emblematico: Quelli di Bagheria. 

Ritenne che quell ‘esperienza dovesse essere condivisa il più possibile, e poiché i libri non hanno una tale fortuna, ne fece un film. E una sera di dicembre del 2003 lo proiettò a Bagheria, in piazza Madrice. 

Su quell’episodio Ferdinando Scianna ora scrive: "C’erano tremila persone. Sul sagrato della Madrice collocammo due schermi, in uno il mio film nell’altro le immagini degli spettatori che guardavano cercate tra la folla da due telecamere . … Alla fine, messi di fronte alla propria memoria, al tempo inesorabile come soltanto sa fare la fotografia, molti piangevano. Era l’emozione che avevo cercato”.

(9) Chi c’era vide Ferdinando Scianna aggirarsi nella piazza, fra i tremila, con la sua macchina fotografica. 

Un’altra serata memorabile.

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Biagio Napoli

1)Ferdinando Scianna, Autoritratto di un fotografo, Bruno Mondadori, settembre 2011, p. 34.
2)Ivi, p. 56.
3)Ferdinando Scianna, Ignazio Buttitta, testo di Roberto Leydi, Sciardelli, Milano 2000, pp. 9-10.
4)Nino Morreale, Carlo Doglio a Bagheria, in Carlo Doglio, Il piano della vita, Scritti di urbanistica e
cittadinanza, a cura di Chiara Mazzoleni, Nino Morreale, Ferdinando Scianna, Lo Straniero, Roma
ottobre 2006, p. 11.
5)Ferdinando Scianna, Quelli di Bagheria, Villa Cattolica Museo Renato Guttuso, PELITI ASSOCIATI
2002, pp. 40-41.
6)Ferdinando Scianna, Un’importanza capitale, in Carlo Doglio, il piano della vita, op. cit., p.8.
7)Ivi, p. 9.
8)Ferdinando Scianna, Autoritratto di un fotografo, op. cit., pp. 183-184.
9)Ivi p. 193. 

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