Strategie di comunicazione mafio-bucolica - di Giusy La Piana

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Quando la mafia fa dell’agricoltura un alibi.


Quando Michele Greco, boss storico della mafia palermitana soprannominato dalla stampa il Papa, appellativo che lo faceva andare su tutte le furie, doveva parlare di se e delle sue origini, sosteneva che la sua era una famiglia di ricchi agricoltori da diverse generazioni, «altro che mafia».
Lui, Michele Greco, era il figlio di un uomo soprannominato piddu u tenenti, proprietario terriero citato negli atti della prima commissione antimafia, e fratello di Salvatore detto il “Senatore” per la sua abilità d’intrecciare relazioni con il mondo politico. Indubbiamente una famiglia di radicate tradizioni, tradizioni mafiose.

Michele Greco aveva poca cultura, cui sopperiva con una eccellente capacità affabulatoria, ed aveva anche molti soldi e tante amicizie d’alto rango. In campagna organizzava gare di tiro, ( ho quaranta anni di "pedana", amava dire), aveva pure un regolare porto d’armi e gli “affari agresti” gli andavano talmente bene da potersi permettere di andare in giro per la città con una Ferrari blu metallizzato, l’unico esemplare mai venduto a Palermo, e di indossare solo capi raffinati e scarpe inglesi cucite a mano. Collezionò undici ergastoli e una condanna a trent’anni: non se ne diede mai pace. «La violenza non fa parte della mia dignità», afferma in Corte d’Assise, subito prima che la corte si riunisse in camera di consiglio. «In che cosa avrei mafiato?», grida al maxi ter, centoventidue imputati. Si dispera: «Mi accusano tutti solo perché il mio nome fa cartellone».

Suona la stessa musica l’orchestra del boss Luciano Liggio, il quale più volte ha affermato: «Il mio mito l’ha creato la polizia, la polizia sostenuta dai giornalisti. […]«Io non appartengo e non ho mai appartenuto a nessun clan e a nessun gruppo. Le squadre non mi piacciono e non mi sono mai piaciute. Anche nello sport preferisco le discipline individuali: il ciclismo, l’atletica, la boxe. [..] Io sono e sono sempre stato un grande agricoltore. E quando dico grande, intendo proprio grande. Conosco ogni branca del settore: dall’ulivo alla vite, dall’ortaggio, all’allevamento del bestiame. E non in forma teorica, ma in maniera pratica. Sono un agricoltore nato. E da agricoltore seguo con apprensione la situazione ecologica».

Anche il boss Salvatore Riina ha recitato la parte del santarello figlio del mondo bucolico: «Ero agricoltore quando ero giovane, in questi ultimi tempi ho lavorato in una ditta di costruzioni e ho campato la famiglia. C’era una persona anziana che mi dava lavoro da più di vent’anni. Prima mi dava 300 mila lire al mese, poi alla settimana. La mia, presidente, è una famiglia modesta. Mia moglie e i miei figli non sono abituati ad andare al ristorante e a fare la bella vita. E poi mia madre in tutti questi anni non mi ha mai abbandonato, mi ha sempre mandato soldi quando ne avevo bisogno. Mia madre ha tre pensioni, una di invalidità ce l’ha pure mio fratello Gaetano».
Riina, come da copione, ha tentato di focalizzare l’attenzione sul concetto di famiglia umile, unita e di grandi valori morali.

Ma il pentito Tommaso Buscetta, nel fatidico confronto all’americana, faccia a faccia svoltosi nell’aula bunker di Rebibbia, diede un colpo di spugna al quadretto rurale tratteggiato da Riina. Quando il presidente della Corte d’Assise chiese al collaboratore di giustizia: «Buscetta, di quante persone, che lei sappia, ha ordinato la morte Salvatore Riina?, il pentito sorrise e disse: « Questa è la domanda più assurda che mi sia stata rivolta. La risposta è: tutti, tutti si rivolgevano a lui per commettere omicidi. Era lui la star di Cosa Nostra».

Pure Bernardo Provenzano ha ostentato un forte legame con il mondo campestre. Durante la sua latitanza nel covo di Montagna dei Cavalli, amava mangiare frutta e verdura appena raccolte. Ricotta, miele e cicoria non mancavano mai nella sua dieta. Milionario, (l’ultimo sequestro relativo al suo tesoretto ammonta a 150 milioni di euro) viveva, all’apparenza da miserabile, in un fatiscente casolare di Corleone e in uno dei suoi pizzini si dichiarava ghiotto di cicoria: «Senti, puoi dirci, ha tuo compare, che siamo entrati in primavera, e lui dovessi conoscere, la verdura nominata cicoria, se potesse trovare, il punto dove la porta la terra questa cicoria, se potesse fare umpò di seme, quando è granata, e me la conserva? Ti può dire che la vendono in bustine, nò nonè questa allo stato naturale che conosciamo, io volessi questa naturale il Seme*»

E anche il boss Sandro Lo Piccolo si stava preparando ad effettuare citazioni dall’eco agricolo da inserire di volta in volta nei pizzini. Nel suo dizionario di citazioni, un quadernetto di otto pagine contenente frasi che il giovane uomo d’onore riteneva utili per eventuale futura corrispondenza, vi è annotato: «C’è una parabola che dice cha a un albero puoi togliere le foglie, puoi tagliare i rami, ma quando le radici sono forti e grandi, stai pur tranquillo che sia i rami che le foglie ricresceranno».


Giusy La Piana
Criminologo
(Membro della Società Italiana di Criminologia)

*Ordinanza di custodia cautelare nei confronti di Bernardo Provenzano + 20, procedimento n. 4668/96 ( gip Renato Grillo).
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