Da "Baarìa" a Bagheria: ci abbiamo perso o guadagnato?

Da "Baarìa" a Bagheria: ci abbiamo perso o guadagnato?

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E’ stato detto e scritto tanto, ed anche sul nostro giornale, sui sentimenti che susciterà nei baarioti, il film “Baarìa” di Peppuccio Tornatore.
Nostalgìa soprattutto di un paese che non c’è più, di emozioni e sensazioni che ci rimandano alla nostra fanciullezza o adolescenza o giovinezza


A leggere alcune di queste cose sembrerebbe che Bagheria negli anni quaranta o cinquanta o sessanta fosse una linda e graziosa cittadina, dove tutto andava bene, dove tutto filava liscio, e dove tutti vivevamo felici e contenti.

Nella realtà, la nostalgìa è solo per i nostri anni verdi, e Baarìa era solo casualmente la cornice entro cui vivevamo esperienze, sensazioni ed emozioni, proprie dell’età giovanile.

In poche parole, e per farla breve, la Bagheria che abbiamo avuto la (s)ventura di conoscere, nei primi anni ’50 era un paesone con più problemi di adesso.
E vediamo perché.
Era un paese sporco, sporchissimo: quelli che vediamo oggi accatastarsi sulle nostre strade, sono i rifiuti di una società mediamente sazia ed evoluta, quelli di allora erano, e, come oggi, sempre per le strade restavano, i rifiuti di una società povera, se non poverissima.

Gli anni cinquanta, di cui qualche brandello nella nostra memoria di bambino è rimasto, ci restituiscono un paese in cui le strade asfaltate si contavano sulle dita di una mano: tutte le altre erano o “‘nciacatate”,( ne è stato ricostruito qualche esempio in qualche “enclave”, e che, percorse con il carretto, ve le raccomando), oppure su fondo naturale o terra battuta, che in inverno diventavano fangose e impraticabili, e in estate si trasformavano in polverose piste desertiche , e sempre impraticabili erano.

Non c’erano, o esistevano solo in zone limitatissime, le fognature.

Davanti le case, e qualche immagine sia pure da piccolissimo mi è rimasta, c’erano i pozzi neri, “aci” in dialetto, laddove al mattino presto o nel buio della sera si svuotavano i vasi da notte e “i cascietti”, contenitori cilindrici di terracotta, aperti dall’alto e svasati, per consentire i bisogni fisiologici.

L’acqua e i servizi erano in pochissime case: c’erano le fontanelle pubbliche, dove quotidianamente le donne con i “cati” o bottiglioni, andavano a riempire l’acqua per bere o le necessità della casa, e dove pressocchè quotidianamente, tra le donne in attesa di riempire i secchi, scoppiavano litigi che talvolta degeneravano.
Le strade erano percorse da carretti, da cavalli, muli, asini, pecore, mucche e quant’altro, ed erano sempre piene di sterco maleodorante che attirava mosche e zanzare alla grande.
Non c’erano i frigoriferi, e la televisione cominciò ad arrivare dopo la prima metà degli anni ’50. Si leggevano pochissimi libri e giornali.
Certo si era più giulivi e contenti, ma solo perchè avevamo oltre mezzo secolo in meno di adesso.

La mafia c’era, e forse più forte di oggi, anche allora.

I braccianti che erano la stragrande maggioranza della popolazione, al mattino, a centinaia, andavano in piazza Madrice, a “vendersi”.
Era uno spettacolo mortificante, che durò sin oltre gli anni sessanta.

I proprietari terrieri, che avevano lavori da fare nelle campagne, passavano al mattino dalla Piazza e “adduvavanu” “i iurnatieri”, cioè i braccianti, a giornata.
“Tu, tu e tu”
Nel mercato di piazza gli uomini si sceglievano come si scelgono oggi i detersivi al supermercato.

E se eri riottoso, cioè richiedevi i tuoi diritti, o eri politicamente sensibilizzato, in piazza eri e in piazza restavi; a meno che nelle campagne non ci fosse assoluta e vitale necessità di braccia.

I braccianti e i piccoli contadini vivevano in case di 25- 30 metri quadri, assieme a mogli, figli ed animali, tutti sotto lo stesso tetto.

Certo le cose avevano un sapore diverso, più genuino, e giocavamo felici e spensierati per le strade.

Però l’emigrazione divideva migliaia di famiglie: Milano, Torino, il Belgio, la Germania, la Svizzera, le mete più “gettonate”.

Noi ragazzini si andava in giro con le scarpe, “chi tacci”, chiodi corti e con la testa ampia e piatta che servivano a rinforzare le suole per farle durare di più, e per Natale si aspettava con trepidazione l’annuale “pacco” che i parenti americani mandavano con vestiario da loro dismesso e con i tradizionali dieci dollari.

C’era infine, per ricordarne solo una, una classe politica, che nei primi degli anni ’50 di fronte alla prospettiva di indebitarsi per comprare Villa Palagonìa, ( ci fu un momento in cui questo fu possibile), preferì contrarre un mutuo ordinario per costruire l’attuale campo sportivo.

Era un bel paese questo, da sognare come una sorta di Eden perduto o da rimpiangere come un paradiso terrestre che non c'è più?
Non ci pare.

In realtà, e lo ripetiamo, è di noi stessi, della nostra fanciullezza o della nostra adolescenza, che abbiamo una nostalgìa “canaglia”.

C’era però, qualcosa che rendeva la nostra comunità, anche se povera e arretrata, forte e viva.
Era lo spirito, l’atteggiamento con cui si guardava alla vita e al futuro, che per dirla in breve era di straordinaria fiducia e ottimismo, che connotava certo tutta l’Italia del "miracolo economico" di quegli anni, ma noi “baarioti” in particolare.

Nella seconda metà degli anni ’50, le cose, infatti, cominciavano a cambiare.

Si realizzano le fognature e le strade, l’acqua e i servizi cominciano ad entrare nelle case, nascono o si rafforzano le leghe bracciantili.
L’economia degli agrumi tirava e andava fortissimo, i nostri verdelli conquistavano sempre nuovi mercati, in Italia e all’estero.
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Nel 1958, il prezzo dei verdelli oscillò intorno alle 200 lire, raggiungendo un picco di 202 lire, prezzo pagato dai commercianti al produttore.

Con due panieri di limoni, ad occhio da 5 a 10 minuti di lavoro, un proprietario si pagava già la giornata del bracciante, che allora per 1200 lire lavorava intorno anche 10 ore, e guai se si portava l’orologio nel luogo di lavoro.

I profitti dell’agricoltura muovevano l’economia locale e venivano reinvestiti nell’agrumeto.

Furono decine in quagli anni, commercianti e produttori di agrumi, che andarono a comprare terreni e impiantare agrumeti fuori Bagheria , a Lascari e Campofelice, sino a Santo Stefano e Capo d’Orlando; e in provincia di Ragusa e Siracusa.a Rosolini, Acate, Floridia, ecc…

Anche la scelta di emigrare era sì una scelta di necessità, ma, volendo, anche di fiducia e di coraggio.

I nomi di Renato Guttuso e Ignazio Buttitta, dei rettori magnifici dell’Università di Palermo Tommaso Aiello e Giuseppe D’Alessandro ci facevano gonfiare il petto di legittimo “orgoglio baarioto”, ed era ancora fresca la memoria dei Cirrincione, dei Bagnera, dei Lo Monaco, degli Scaduto, che nei primi decenni del XX secolo erano stati luminari delle scienze mediche, matematiche, biologiche e del diritto, e che avevano occupato contemporaneamente le cattedre universitarie delle loro discipline all’Università di Roma.
Nascevano circoli di cultura e associazioni: c’era una voglia di cimentarsi e di spendersi, c’era quella che oggi si direbbe una mentalità vincente , che allo stato attuale palesemente ci manca.

Ci furono quelli che investirono in nuovi impianti agricoli, ma furono anche tanti i piccoli commercianti, i piccoli proprietari, gli esponenti della piccola borghesia artigiana, che investirono, sull’onda della rinascita economica, sulla cultura e sul sapere , e che, con grandi sacrifici, mandarono i figli all’Università.

Ai valori della cultura e del sapere si dava, anche da parte degli analfabeti, molta più importanza di quanto non ne diano oggi le persone mediamente colte

Oggi c’è, ed è sin troppo ovvio, un paese, sicuramente più ricco o più esattamente che consuma più ricchezza, ma è una comunità dal punto di vista psicologico e del carattere, sconfitta, delusa e ripiegata su se stessa, e/o che nella migliore delle ipotesi si interroga sul proprio futuro.

Una comunità in cui le energie e gli intelletti migliori se ne sono andati e continuano ad andarsene, impoverendo l’economia, la scuola, la politica, la cultura e quant’altro.

Certo non è tutto nero.

Anche in una situazione difficile economicamente e socialmente, sono in tanti, tra chi è rimasto, quelli che non si rassegnano.

Aveva forse ragione Renato Guttuso, quando nella Introduzione della Ristampa anastatica, fatta nel 1984, della Guida illustrata Bagheria- Solunto del 1911, scrive: “…….tuttavia c’è in questa singolare cittadina una forza interiore che le permette di conservare i suoi caratteri fondamentali, attraverso gli sviluppi e le mutazioni”.
E’ proprio il caso alla vigilia dell’uscita di “Baarìa”, far prevalere, gramscianamente, sul pessimismo della ragione, l’ottimismo della volontà.
Ma di questo parleremo un’altra volta.

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