Il cinema è la realtà? La realtà è il cinema? di Tommaso Impellitteri

Il cinema è la realtà? La realtà è il cinema? di Tommaso Impellitteri

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La ricorrenza, il prossimo 19 Marzo, dell’uccisione nel ’94, per mano della camorra, di don Diana (32enne parroco a Casal di Principe) dopo circa 6 mesi (15 sett.’93) dall’uccisione di don Puglisi a Palermo, per mano mafiosa

mi ha rimandato ad alcuni libri quali “Il costo della memoria” di R.Giuè, “Per non morire di mafia” di P.Grasso e, in particolare, “ Gomorra” di R.Saviano che a tanto sgomento mi ha indotto, molto di più del film, che pure è terribile.
Se ciò che Saviano scrive è vero, è proprio il caso di dire che la realtà delle mafie, connotata da profondo disprezzo della dignità della persona e della vita, in un tutt’uno con gli inumani meccanismi del loro ‘sistema di potere’ in simbiosi con l’economia e l’impero del mercato per il conseguimento del massimo profitto col dominio sulle persone, meccanismi che - in una purtroppo perfetta e ‘maligna’ globalizzazione del crimine da noi si dipartono e si intessono fin nelle parti più remote dei Paesi del mondo - questa realtà supera l’immaginazione e lo stesso film.
Restando nell’ambito dell’arte cinematografica, una fra le tante cose che mi hanno colpito e che, inconsciamente, mi ha rimandato alle citate uccisioni per mano mafiosa e camorristica e ancor di più ai giovani, alla cultura e alla scuola, è ciò che Saviano afferma, citando il film “Il camorrista” di G.Tornatore [Il camorrista, film del 1986 diretto da G.Tornatore praticamente all'esordio nella regia, liberamente tratto dall'omonimo romanzo di G.Marrazzo giornalista. Prodotto da Reteitalia (Fininvest) e Titanus (4 miliardi di lire).

Ritirato nel 1986 dopo 2 mesi di distribuzione, querelato e messo in onda su Rete4 nel marzo 1994.] . Al punto da immaginare di porre alcuni interrogativi su Cinema e criminalità organizzata al nostro illustre concittadino, prepotentemente tirato in ballo.
Tuttavia, mi potrebbe bastare un riscontro da parte dei tanti e stimatissimi cultori bagheresi di cinema, che conoscono bene film e regista.

Afferma Saviano: “ A Napoli non è complicato comprendere quanto il film "Il camorrista" di Giuseppe Tornatore sia in assoluto il film che più di ogni altro ha marchiato l’immaginario.”
Lo afferma mentre intesse la storia di due “bulli” che, vivendo e recitando vere e proprie scene del film, ma anche di altri, quali “Scarface”, “Pulp Fiction”, “Taxi driver”, “Quei bravi ragazzi”, “Il Padrino”, “Donnie Brasco”, vengono un giorno uccisi barbaramente come solo camorristi e mafiosi sanno fare.
E sottolinea: “Come i giovani spartani andavano in guerra con in mente le gesta di Achille ed Ettore, in queste terre si va ad ammazzare e farsi ammazzare con in mente….” i modelli dei film citati.

Scrive ancora Saviano: “ Non è il cinema a scrutare il mondo criminale per raccoglierne i comportamenti più interessanti. Accade esattamente il contrario. Le nuove generazioni di boss non hanno un percorso squisitamente criminale, non trascorrono le giornate per strada avendo come riferimento il guappo di zona, non hanno il coltello in tasca, né sfregi sul volto. Guardano la tv, studiano, frequentano l’università, si laureano, vanno all’estero e soprattutto sono impegnati nello studio dei meccanismi d’investimento. ….” Citando ad esempio significativo come il termine padrino sia stato fatto proprio dalle cosche, a parte le ben note posture del protagonista…. .
E continua: “ …. Il cinema è un modello da cui decrittare modi di espressione. ….. I camorristi debbono formarsi un’immagine criminale che spesso non hanno, e che trovano nel cinema. Articolando la propria figura su una maschera hollywoodiana riconoscibile, percorrono una sorta di scorciatoia per farsi riconoscere come personaggi da temere.

” E cita film come “ The Crow” “Kill Bill” e “Nikita” (questi ultimi in particolare per le donne boss), sottolineando che: “Non è vero che il cinema è menzogna, non è vero che non si può vivere come nei film e non è vero che ti accorgi mettendo la testa fuori dallo schermo che le cose sono diverse.” “Non c’è una reale differenza tra gli spettatori dei film in terra di camorra e qualsiasi altro spettatore. Ovunque i riferimenti cinematografici sono seguiti come mitologie d’imitazione …”.

Ritengo che il discorso del ‘peso’ del cinema, con i suoi modelli e linguaggi, (vedi colonne sonore riprodotte ovunque negli ‘spazi’ frequentati, usati da giovani), valga in uguale misura per camorra e mafia. Le serie tv de “Il Padrino”, “La Piovra”, “Il Capo dei capi” lo confermano

Restando, perciò, nell’ambito filmico ed escludendo l’aspetto del senso della cultura ad esso collegato, di cui non si può chiaramente prescindere, visto fra l’altro che Saviano parla anche dei tanti camorristi amanti e cultori della letteratura e dell’arte, soprattutto nel campo musicale e della pittura, che a loro modo ritengono di poter ‘vivere e piegare’ per conseguire serenità, in realtà, come dice lo stesso Saviano, “un’impossibile serenità”, mi soffermo su due delle affermazioni citate: ‘Non è il cinema a scrutare il mondo criminale per raccoglierne i comportamenti più interessanti. Accade esattamente il contrario.’; “

I camorristi debbono formarsi un’immagine criminale che spesso non hanno, e che trovano nel cinema.”

Le implicanze di tali affermazioni, per la loro gravità, vanno chiaramente ben oltre (a mio modesto avviso) i cosiddetti ‘travisamenti o fraintendimenti’ sempre possibili da parte degli spettatori; travisamenti che, chiaramente, hanno pesi profondamente diversi a seconda dei contesti. Infatti, basta poco per rilevare quanto notevole sia la notorietà conseguita negli anni da questo film, “Il camorrista”, divenuto un cult per molti ragazzi malavitosi, che, di certo, ne hanno travisato il messaggio.
Ma quale messaggio è stato travisato? Fino a che punto è stato travisato?

Ancora prima di proporre questi interrogativi, chiederei a Peppuccio Tornatore:

se condivide le affermazioni citate o, almeno, fino a che punto;
se ritiene che questo film rientri nelle affermazioni di Saviano;
se lo rifarebbe allo stesso modo, tenendo anche conto delle vicende di cui è stato oggetto;
se creare comportamenti, e in particolare comportamenti del genere mafioso, è “anche” arte cinematografica;
se scegliere di girare un film può sempre e comunque prescindere dalla valutazione dei modelli veicolati, con annessi messaggi;
se può essere tradotta qualsiasi ‘cosa’ in attività filmica come fatto artistico;
se la crudezza di avvenimenti umani può essere intesa o usata come ‘sostanza filmica’ con la cui rappresentazione si ‘fa’ arte;
se l’arte ha un limite, oltre il quale essa non può più essere tale;
se il top dell’opera d’arte non si consegua ogni qualvolta il profondamente intimo che essa produce è tale che, al suo confronto, il dire che trattasi di opera d’arte potrebbe quasi “disturbare”, apparire “forzato”, “inopportuno”.
Senza nulla togliere ad altri interessantissimi film, ma restando nell’ambito dell’opera di Saviano, mi pare che il film Gomorra racconti la tragicità, la crudeltà, l’inferno della camorra, ritengo, senza alcuno spazio di travisamento verso mitizzazione e imitazione, anzi, tutto il contrario.
Se in questo film, a mio parere, un aspetto dell’arte è la rappresentazione di diverse realtà con una compiuta sintesi dei meccanismi e delle atrocità delle stesse realtà, mi chiedo - e chiedo - quali aspetti ‘artistici’ si possano intendere conseguire in film come quelli prima citati e se vi si riesce, visto che diventano punti di riferimento per menti deboli o “criminali”.
Il mio timore è che una certa cinematografia, forse senza volerlo, dà alla “banalità” del male e di chi lo compie una veste ‘accettabile’ (camuffandola di “arte”) di significatività storica.

Sono interrogativi che, considerando il film in fondo una sequenza di ‘foto’, potrebbero coinvolgere anche un artista della fotografia come F.do Scianna (altro illustre concittadino), il quale non mi pare si sia mai ‘soffermato’ - artisticamente parlando- su scene atroci e rivoltanti o scene ‘modello’ … da imitare.
Ma l’arte fotografica è ancora un altro mondo.