U tempu r'astrattu - di Mimmo Gargano

U tempu r'astrattu - di Mimmo Gargano

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Fino agli anni settanta del secolo scorso la versione estiva del paese di Bagheria -non ancora città- era caratterizzata dalla presenza diffusa nelle piazze, negli slarghi, ma anche nelle  vie della parte più antica del paese, di distese di tavole rettangolari di legno,

su cui faceva bella mostra il succo di pomodoro steso ad asciugare al sole: era il periodo in cui si faceva "‘astrattu "
Fino a quegli anni i pomodori erano un frutto tipicamente estivo che comparivano sul mercato ai primi di luglio per sparire a settembre/ottobre; nulla a che vedere con quanto avviene oggi quando i pomodori freschi sono presenti ininterrottamente sul mercato e quindi ad esempio la "salsa" fresca si può avere tutto l'anno

"'Astrattu", il succo di pomodoro asciugato al sole fino a ridurlo a circa un decimo del suo volume iniziale e salato in maniera robusta per consentirne la durata, assieme alla passata "‘a salsa" conservata in bottiglia, costituiva uno dei modi per utilizzare questo frutto così importante nella cucina meridionale anche nei mesi invernali.

"Fari astrattu" era una attività fondamentale per molti bagheresi dei ceti popolari, attività complessa e faticosa che coinvolgeva intere famiglie almeno per un paio di giorni.

Bisognava intanto rifornirsi dei pomodori, andando a comprarli al mercato " u scaru", (che negli anni '50 si trovava nell'ordierna piazza Vittime della Mafia a Palagonìa), dove si spuntava un prezzo più conveniente, oppure comprandoli direttamente dal contadino produttore; in genere questi era persona conosciuta, vicino di casa o comunque uno del quartiere, e ciò appariva una rassicurazione relativamente alla qualità del prodotto.

Allora i pomodori in commercio erano quasi completamente di una sola varietà: la cosiddetta nostrale (corrispondente al "genovese a coste" adattato da molti anni alle condizioni locali) caratterizzati da buccia sottile poca fibra e buona resa in succo; i più ricercati erano quelli di pezzatura più piccola, "sansieri"- cioè esenti da alterazioni visibili-, e specialmente che fossero "ru siccagnu" coltivati cioè in zone non irrigate perchè questo si traduceva in un minore contenuto in acqua di vegetazione quindi in una maggiore velocità di asciugatura del succo e in una resa maggiore; particolarmente ricercato il pomodoro dell'Accia.

L'attrezzatura per fare l'estratto era abbastanza semplice: il passapomodoro, un vaglio molto sottile fatto con crini di cavallo -‘u crivu ri pilu", le tavole su cui stendere il succo ad asciugare -"‘i maiddi" e veniva spesso presa in affitto; servivano anche una o più spatole "‘a rasca "con cui raschiare dalle tavole il succo man mano che andava asciugandosi.

(Esistevano delle leggere varianti locali nella tipologia delle "maidde"; a Bagheria erano delle tavole rettangolari di 80cm x 200 cm. lisce senza bordo; a Casteldaccia invece le stesse tavole erano dotate di un bordo rilevato di circa 3 cm che impediva che il succo appena versato, quindi molto fluido, scolasse dai bordi).

Il "passapomodoro" era costruito anch'esso in legno ed era costituito da una cassa capace di circa cento litri di succo, poggiante su piedi, chiusa in alto da una lamiera di zinco traforata inserita in un bordo di legno; su questa si versava una intera cassetta di pomodori che venivano spremuti a fondo fino a che restava solo "‘a spùagghia" (un misto di bucce, semi e scheletro fibroso dei pomodori che era talora utilizzata come mangime per gli animali); il succo veniva ricuperato tramite un foro posto nella parte bassa di uno dei lati.

La sera precedente i pomodori venivano "spiricuddati" -si toglieva il picciolo- lavati e lasciati ad asciugare; si passava quindi alla spremitura, attività faticosa in cui valeva molto la forza fisica; perciò questa fase era spesso affidata ad un uomo di casa che spremeva le 4-5 cassette di pomodori nelle prime ore del mattino prima di recarsi al proprio lavoro.

Il succo ottenuto dalla spremitura, setacciato attraverso "u crivu ri pilu", per togliere completamente le fibre ed ottenere un prodotto finale più fine, veniva steso in strato sottile sulle tavole posizionate in modo da godere della maggiore insolazione, mano a mano che queste andavano scaldandosi; nei luoghi ove l'esposizione era migliore, ad esempio nelle piazze, non era necessario spostarle per inseguire il corso del sole, ed era un buon risparmio di fatica!

Una volta che il succo era tutto steso sulle tavole veniva salato con circa 100 g di sale per ogni chilo di pomodori e veniva mescolato - "arriminatu"- frequentemente con le mani al fine di ottenere una asciugatura uniforme ed evitare che si attaccasse alle tavole; via via che si andava asciugando veniva concentrato in un numero sempre minore di tavole.

Questa fase della lavorazione era appannaggio delle donne ed era fonte di discussioni infinite: quale fosse la migliore esposizione da dare alle tavole, la scelta del momento migliore per raccogliere il succo dalle "maidde" dove la asciugatura era più avanzata, le attenzione da porre in atto per evitare che anche una piccola parte del succo andasse perso, per colatura dalle tavole o per imperizia di chi operava nel raccoglierlo da una "maidda" e trasferirlo ad un'altra.

Durante la asciugatura una importante attività collaterale era quella di bagnare il terreno attorno alle "maidde" (va ricordato che allora a Bagheria molte piazze e vie non erano asfaltate) per evitare che il traffico dei veicoli, non intensissimo allora ma pur presente, alzasse polvere che si sarebbe inevitabilmente depositata sull' "astrattu".

Quando le condizioni del tempo non erano del tutto rassicuranti - soleggiamento intenso accompagnato da ventilazione leggera era l'ideale - era tutto un invocare / scongiurare la divinità perché il tempo si mantenesse buono e consentisse di portare a buon fine l'impresa; succedeva talora che invocazioni e scongiuri non sortissero l'effetto voluto, il tempo si guastava e per evitare  " r'appizzàricci u sceccu cu tutti i carrubi", cioè per limitare il danno, si era costretti a ritirare il succo steso e/o da stendere che a questo punto doveva essere concentrato con la cottura e ovviamente il risultato non era lo stesso.

Quando tutto era andato bene a fine giornata si aveva la soddisfazione, che remunerava ampiamente la fatica, di avere ottenuto alcuni chili, (in genere si considerava  buona una resa in cui i pomodori "ittavano" circa un decimo del peso iniziale), di "'astrattu", con le caratteristica di una pasta semisolida, di un bel colore rosso mattone, dal profumo intenso e dall'altrettanto intenso sapore ("ch'è dduci! " era l'inevitabile commento) che raccolto su uno "scanaturi" -spianatoia- piccola tavola quadrata di circa 80 cm di lato-, sarebbe rimasto per qualche giorno esposto all'aria, però al fresco.

Il ruolo dei bambini si limitava al tempo ad "arruciari 'ntierra" e nel leccare l'astrattu recuperato dalle scanalature delle "maidde"

Alla fine della lavorazione "'astrattu" veniva conservato in recipienti smaltati con apertura relativamente stretta, coperti da un foglio di carta oleata.

Piccola digressione di costume: nel gergo locale esisteva (non saprei dire se è ancora in uso) la definizione di "astrattari" che definiva le persone -in genere intere famiglie- che facevano "'astrattu" per venderlo; trattandosi di attività che costringeva a stare per la strada, esponeva agli sguardi, non sempre innocenti, ed ai commenti dei passanti con cui spesso si istaurava, diciamo così, una certa dialettica.

Per questo motivo la definizione di "'astrattara" veniva talora rivolta, come epiteto, a donne il cui comportamento non era esente da una qual volgarità, di modi e/o di linguaggio. Ovviamente chi faceva "'astrattu" per sè non rientrava in questa categoria; infatti sempre a Bagheria si dice "cu strigghia ‘u so cavaddu un si chiama ‘arzuni" (garzone).

Per tutto l'autunno e l'inverno successivi si aveva così la materia prima per preparare "u sucu" ingrediente mito della cucina locale, che oltre ad indubbi pregi aveva -ha- l'altrettanto indubbia caratteristica di prevaricare sulle sfumature di sapore dei cibi che in esso si cucinano.

(A tale proposito: un amico cacciatore mi confidò una volta di avere smesso di offrire all'anziano padre qualche pernice, qualche beccaccia, qualche quaglia frutti delle sue cacce più fortunate, perché alla domanda su come le avesse cucinate, invariabilmente quello rispondeva "cu sucu"; soccorre al riguardo- "si parva licet componere magnis"- la descrizione gattopardiana degli effetti del vento che mescolava tutti gli odori in un quid indistinto, omogeneizzando odore di principe, odore di cani, odore di Tumeo ecc. che pare anche, a chi scrive, un'ottima metafora di un aspetto importante della sicilianità).

P.S. Il sugo ottenuto con piccole dosi di estratto ricostituito con acqua su abbondante soffritto di cipolle si utilizza(va) per cuocervi i piatti a base di carne di maiale (la prima volta a metà settembre per la Festa della Madonna della Milicia, che costituiva l'ouverture per il consumo di tale carne) bruciuluni, salsiccia, "cutini"; si otteneva così "u sucu ‘ ngrasciatu" cioè con una ricca componente di grasso; oppure, altro uso tipico, le ultime melanzane della stagione, piccole perché le piante ormai esauste, non riuscivano a portarle a piena maturazione, previamente farcite con pezzetti di pecorino, aglio, menta, sale e pepe- e rosolate in olio: le cosiddette "mulincianieddi ammuttunati".

Avvertenza per le moderne e salutiste cuoche: nessuno dei piatti citati, peraltro estremamente gustosi, è propriamente dietetico.

 

La foto in bianco e nero è uno scatto del 1972 di Angelo Restivo nell'Atrio Cavaliere

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