Bagheria ai tempi del colera - di Biagio Napoli

Bagheria ai tempi del colera - di Biagio Napoli

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Dagli all’untore

“La credenza che peste e colera venissero artatamente sparsi tra le popolazioni è antica. La registra Livio…”, anche se pare “si fosse del tutto spenta nei secoli successivi, e fino al XIII e XIV. Non ne troviamo traccia, infatti, nei cronisti, che pure abbondano di notizie sulle epidemie pestifere, del due e del trecento. Nelle loro pagine, le tremende epidemie non trovano altra causa che il volere di Dio o l’influsso degli astri; e la propagazione del morbo ad altro non è attribuita che agli scambi e ai viaggi. …Ma nel secolo XVII ecco ridivampare e diffondersi quella lontana credenza…nel secolo XVII un tale sospetto non solo viene formulato ma arriva alla certezza, medica e giuridica, tramandandosi…fino a un tempo cui arrivano i nostri ricordi. Del colera del 1885-86 e della «spagnola», ultima mortale epidemia che si è avuta in Italia subito dopo la guerra del ’15-18, abbiamo infatti sentito favoleggiare come di provvedimenti, per così dire, malthusiani; …Questa opinione… nel colera dell’85-86 diede sanguinosi esiti in Sicilia …” (1).

La suddetta opinione aveva però già dato esiti altrettanto sanguinosi in Sicilia durante l’epidemia colerica del 1837 di cui Leonardo Sciascia, autore delle considerazioni sopra riportate, stranamente, non scrive.

altA proposito di quella epidemia avvenuta durante il regno borbonico, lo storico termitano Alfonso Sansone scrive: “Il male incrudisce. Il popolo, ignorandone l’occulta potenza, lo crede opera della malvagità umana, e pronunzia la strana parola: veleno. Questa è accolta subito dai creduli, dai facinorosi e da coloro che agognano vendicare private offese…la plebe guarda sospettosa gli agenti del governo, spia i moti e gli atti dei passanti, dubita, palpita e scorge ovunque avvelenati e avvelenatori. …Il quattro luglio, dì in cui il morbo aveva ucciso quasi mille persone, essendo arrivato nella rada di Palermo un piroscafo regio, corse voce che Ferdinando II, sbarcato furtivamente da quello, attraversasse vestito da monaco benedettino la città per incoraggiare gli avvelenatori; che si fosse poi ritirato nel convento di San Martino; e dopo d’essere andato alla Favorita, risalito a tarda notte sul piroscafo, fosse tornato a Napoli” (2).

E ancora: ”I rumori, i pregiudizi e le paure descritte s’estesero altresì in molti comuni della valle di Palermo nei quali, essendo più grave l’ignoranza, più debole il freno delle autorità regie, più aspro il dissidio fra i possidenti e la plebe, avvennero scene crudeli. Ivi, tutti coloro che bramavano vendicare vecchi arbitrii, recenti sopprusi e private offese, assalirono sotto il pretesto del veleno, le persone e le case dei funzionari del governo, dei capi delle amministrazioni comunali, dei presunti propinatori del morbo e dei più cospicui possidenti, che, per la lotta non mai intermessa tra chi ha e chi non ha, erano e sono forse tuttavia in grande odio alle classi rurali” (3).

La ricostruzione delle vicende del 1837 fatta dal Sansone, risente di una certa enfasi, ma appare puntuale per i continui riferimenti alle fonti, per la descrizione meticolosa dei fatti. Racconti particolarmente drammatici sono quelli che riguardano i misfatti verificatisi a Villabate e a Misilmeri.

VILLABATE:  SCEMPIO  DI  DONNE  E  DI  CIVILI

“L’undici luglio, corse voce d’essere la frutta, le droghe e le vivande avvelenate, la plebe si unì sulla pubblica piazza…Giovanni Pitarrese, detto il Napoleone e altri danno la caccia agli impiegati, ai rondieri, ai gendarmi ed uccidono l’avvocato Giuseppe Rodanò, giudice dell’Orto Botanico…. Indi, guidati da Michele Alaimo, Antonino Lazzaro, Stefano Miano e Gaetano Spina, assaltano la farmacia di Pietro Arcabasso gridando: Viva la misericordia di Dio!

A quel grido Giuseppe Pisciotta afferra una scala, vi monta, entra per una finestra nella casa dell’Arcabasso, l’afferra e lo colpisce con uno stile. L’infelice si affaccia insanguinato alla finestra chiedendo soccorso; ma la folla, incitata dalle grida dei malvagi, gli risponde con una scarica. Tra il fumo, lo sparo e l’urlio orrendo, Stefano Miano e Antonino Lazzaro montano la scala, ghermiscono l’Arcabasso e lo precipitano dalla finestra sulla strada, dove è finito dal Miano. Infellonito il popolo alla vista dell’ucciso, va in cerca di Antonio Montaperto, lo scova nella casa del principe di Baucina, lo tortura, gli estorce confessioni inverosimili, e l’uccide. Poscia, diviso in tre schiere, scorazza il paese.

La prima schiera, guidata da Giovanni Pitarrese, trucida Antonina Mazzerba al cospetto del suo vecchio genitore; la seconda, condotta da Filippo Alaimo, detto l’addannato, scanna Salvatore Filippone tra i suoi, e la terza, guidata da Stefano Miano, soprannominato Chiuviddu, spegne barbaramente l’ispettore Diez, Anna Giardina sua consorte, il capo-ronda Francesco D’Angelo ed il possidente Filippo Caravello” (4). Pare che Antonina Mazzerba “che credeano stipendiata a propagare veleni… Benedetto D’Amico 25 colpi di conciarro le vibra, e ne rimane esangue, e sullo spirante corpo al suolo disteso, altro ancor più malvagio scaricò il fucile”; e che, ucciso l’ispettore Diez, fecero “strazio della uccisa Anna Giardina, sua congiunta, a cui taglian le poppe” (5).

E pare che “alle nove vittime accennate si arrestarono per quella notte tremenda, rimettendo alla vegnente la continuazione della strage, per estinguere la classe, così detta dei Cappeduzzi… guidate sempre le turbe dai duci, Giovanni Pitarrese il Napoleone e Filippo Alajmo il Generale… Il generale fatto montare un carro, ritornarono ai luoghi dove giacevano i cadaveri degli estinti, e presili sul carro, li portarono in campagna, gettandoli in un disseccato pozzo” (6).

altA  MISILMERI  DISSOTTERRANO  ANCHE  I  MORTI.

“La sera del 13 luglio… un messo spedito dal Regio Giudice in Villabate, onde chiedere soccorso, venne ucciso dai sediziosi…assalgono la casa del barone Furitano : ivi erano riparati il Regio Giudice e famiglia, pochi urbani, tre gendarmi e, col Baroncino Furitano, capo urbano, opposero valida resistenza ed i sediziosi vennero respinti. Inaspriti di non essere riusciti in questa pugna, attaccano da ogni parte il paese, uccidono la moglie di D. Antonino Torchiani e la casa messa a sacco ed incendio: lo stesso avvenne a quella di Bellittieri, Mosca e di Mariano Leone. Aggiornò il funesto dì 14, replicano l’assalto alla casa del barone Furitano, uccidono il Regio Giudice e moglie, D. Vincenza Liura, D. Domenico Moralda, Francesco Dell’Orto e moglie, ed un gendarme: infine saccheggiano ed incendiano interamente quel vasto e ricco edificio.

Fu in questo crudele macello che il baronello Furitano si troncò la vita con un colpo di pistola per non cadere nelle mani dei rivoltosi: il barone padre, per miracolo, scampò da quell’eccidio. Non sazii ancora di tanto innocente sangue sparso si diè morte all’usciere Lo Carufo e la casa messa a ruba, fu ucciso il percettore Caracciolo e suo figlio, la casa bensì saccheggiata, le teste recise di questi disgraziati furono portate in trionfo e i corpi bruciati in pubblica piazza. Si diè morte a D. Stefano Caraffa ed il cadavere fu bruciato e la casa messa a sacco; del pari quella di Rositani, Cagliura, Vasselli, Santoro e del Comune. Abbenchè un certo ordine si fosse ristabilito nel 14 pur tuttavia si disumò il cadavere di un certo Scozzari, morto di colera da 4 giorni, che infettò il Comune e per questo si diè morte al medico Carlotti, incolpandolo autore di avvelenamento nella sua professione. Il giorno 15 alla fine si compie la crudele carneficina dando la morte all’usciere Bellittieri” (7).

UNA  REAZIONE  FEROCE  COME  LE  STRAGI

I primi tumulti ( dall’8 al 10 luglio ) scoppiano però a Villagrazia. Seguiranno quelli di Villabate ( dall’11 al 12 luglio ), di Bagheria ( 12 luglio ), di Capaci ed Isola delle Femmine ( dal 12 al 13 luglio ), di Misilmeri ( dal 13 al 15 luglio ), di Marineo ( dal 14 al 16 luglio ), di Carini ( 16 luglio ), di Corleone ( dal 21 al 23 luglio ), di Prizzi ( dal 23 al 24 luglio ), di Termini Imerese ( dal 23 al 25 luglio ).

La reazione del governo non si fece attendere. “Le ferocie descritte…sdegnarono, non a torto, le autorità primarie della Valle… Il luogotenente… elesse il 16 luglio alcuni Consigli di Guerra per giudicare in modo subitaneo gli istigatori primi e capi delle rivolte. Il 18 il Comandante della Valle comunicò tale ordinanza al presidio di Palermo e la notte del 20 partirono da questo il 7° di linea Napoli comandato dal colonnello Raffaele Del Giudice, il 6° Cacciatori guidato da Roberto De Sauget, il 3° Cacciatori diretto dal Cavaliere Gioacchino Ninì e l’8° reggimento Calabria condotto da Orazio Atramblè. Giunte le truppe ai luoghi assegnati convocarono le commissioni militari composte ciascuna di un presidente, di sette giudici, di un commissario del re e di un cancelliere” (8) .

Su 12 imputati di Villagrazia 3 verranno fucilati (9); di 68 imputati per i reati commessi a Villabate, la Commissione Militare ne condannerà 8 alla pena di morte (10); di 138 imputati di Capaci ed Isola delle Femmine, 85 arrestati e 53 latitanti, avremo ben 62 condanne a morte riguardanti tutti i latitanti e 9 degli imputati in arresto (11); altre 2 condanne a morte riguarderanno latitanti successivamente arrestati (12); i fatti di Misilmeri verranno giudicati in 10 Consigli di Guerra con altrettante sentenze protraendosi i giudizi dal mese di luglio al mese di ottobre. Saranno 156 i soggetti imputati di cui 17 verranno fucilati (13) ; a Marineo vennero arrestati 118 individui; dall’agosto all’ottobre verranno riuniti 6 Consigli di Guerra; 8 saranno gli imputati condannati alla fucilazione (14); a Carini su 29 imputati avremo una condanna in contumacia alla pena di morte (15); a Corleone, tra agosto e settembre, si riuniranno 5 Consigli di Guerra emettendo altrettante sentenze riguardanti 67 accusati con 14 condanne alla fucilazione (16); a Prizzi, l’1 e il 4 settembre, verranno condannati alla fucilazione 8 imputati (17); a Termini, tra luglio ed agosto, in tre Consigli di Guerra, giudicati 48 imputati, 8 saranno i fucilati (18).

“La severità dei Consigli di Guerra, le continue esecuzioni capitali e gli arresti numerosi in questo o quel paese spaventarono anche molti di coloro che non avevano preso parte essenziale ai tumulti dello scorso luglio; onde popolarono le campagne di un numero straordinario di latitanti che, non avendo sempre i mezzi di sussistenza, cercavano di procurarseli, con la forza” (19) . Ma, “ancora una volta il ricorso alla politica della mano forte e alla repressione violenta risultava mezzo insufficiente e inidoneo “, andando a costituire una delle cause del fenomeno del brigantaggio che, evidentemente, non è fenomeno solo postunitario (20).

altBAGHERIA  NON  SI  DISTINGUE.

Anche quell’anno “era giunto apportatore di una dolce primavera il mese di maggio…la nobiltà, ricca di censo, scevra di cure, correva su splendidi cocchi alle superbe ville della Bagheria, dove applaudiva le produzioni drammatiche del duca di Misilindino” (21). Lo scenario, naturalmente, prestissimo cambierà ed a Bagheria, come negli altri paesi, al flagello del colera si aggiungerà la strage.

Dall’agosto all’ottobre, nella sede del Regio Giudicato, verranno riuniti 9 Consigli di guerra per giudicare 66 imputati. “Le commissioni militari, dando ascolto ai lamenti degli offesi, ai reclami passionati di proprietari, alle denunzie prave dei perversi ( i quali coglievano la presente occasione per isfogare vecchi rancori ed invendicati oltraggi ) ed alla collera propria, arrestavano in massa gli abitanti che cadevano nelle loro mani, comunavano ad una sorte rei ed innocenti e li sottoponevano tutti ad un severo giudizio “ (22). Una delle sentenze che riguardarono Bagheria, riferendo le colpe per cui taluni erano giudicati, mostra l’evidenza di questo aspetto.

Erano imputati “Silvestre Caltagirone di avere fatto visita domiciliare per ricercare veleno, Serafino Albanese di avere invocata vendetta dell’altissimo contro i creduti avvelenatori, Orazio Foresta, Francesco Chiello e Pietro Lo Dico d’avere insultato D. Paolo Scavotto, fratello degli uccisi Scavotto Don Carlo, D. Francesco e D. Vincenzo; Giuseppe Lavore qual detentore di una nota di supposti avvelenatori che dalla plebe dovevano uccidersi… Riguardo a Pietro Campagna risultando di avere assistito alle uscite delle bare dei Santi, fatto che porterebbe alla complicità dei reati avvenuti nella giornata del dodici essendosi con tal mezzo eccitata la rivolta la dove venga a provarsi d’aver egli agito con dolo” (23).

Vedremo che i delitti efferati di Bagheria si verificarono durante una processione religiosa organizzata allo scopo di commetterli. La risposta dell’esercito fu principalmente la condanna a morte, mediante fucilazione, di 5 delle 66 persone sottoposte a giudizio e ritenute tra gli organizzatori e i capi della sommossa popolare. Tre condanne a morte vengono erogate durante la prima sentenza che, in appendice, riportiamo.

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Biagio Napoli     CONTINUA

 

NOTE
1. A. Manzoni, Storia della colonna infame, Introduzione di Leonardo Sciascia, Sellerio Editore, Palermo, 1981.
2. A. Sansone, Gli avvenimenti del 1837 in Sicilia ( con documenti e carteggi inediti ), Palermo 1890, p. 53.
3. Ivi, p. 71.
4. Ivi, p. 73.
5. Ivi, Appendice, Sentenza del 20 ottobre 1837, Documento n. LXVII, pp. 307-323.
6. Ibidem.
7. Ivi, Appendice, Sentenza del 26 luglio 1837, Documento n. LXX, pp. 345-351.
8. Ivi, p. 78.
9. Ivi, Appendice, Sentenza del 2 settembre 1837, Documento n. LXVI, pp.298-307.

10. Ivi, Appendice, Sentenza del 20 ottobre, cit.
11. Ivi, Appendice, Sentenza del 2 agosto 1837, Documento n. LXIX, pp. 332-339.
12. Ivi, Appendice, Sentenza dell’1 settembre 1837, Documento n. LXIX, pp.339-341.
13. Ivi, pp. 82-83 e Appendice, Sentenza del 26 luglio 1837, cit.
14. Ivi, p. 89 e Appendice, Sentenza del 16 agosto 1837, Documento n. LXX, pp. 351-355.
15. Ivi, Appendice, Sentenza del 15 settembre 1837, Documento n. LXIX, pp. 342-345.
16. Ivi, p. 83 e Appendice, Sentenza dell’1 agosto 1837, Documento n. LXXII, pp. 356-359.
17. Ivi, p. 89 ( non viene riportato il totale dei giudicati ) e Appendice, Sentenza dell’1 settembre 1837, Documento n. LXXIII, pp. 359-362.
18. Ivi, p. 83 e Appendice, Sentenza del 29 luglio 1837, Documento n. LXXIV, pp. 363-365.
19. Ivi, p. 87.
20. E. D’Alessandro, Brigantaggio e mafia in Sicilia, Casa Editrice G. D’Anna, Messina-Firenze, 1959, p. 53.
21. A. Sansone, Gli avvenimenti del 1837 in Sicilia, cit. , p. 46.
22. Ivi, p. 82.
23. Ivi, Appendice, Sentenza del 21 agosto 1837, Documento n. LXVIII, pp. 329-332.