Bagheria come un’infanzia (3) - di Biagio Napoli

Bagheria come un’infanzia (3) - di Biagio Napoli

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1-Al Sepolcro.
C’è ancora la focacceria. Se penso ad essa rivedo mio padre. Per i morti a lavorare in campagna non ci andava.

Di mattina presto si recava in piazza Sepolcro, comprava quattro focacce con la ricotta, si era solo in quattro a casa e, come fosse una festa, le portava. Quel giorno, a casa nostra, si faceva colazione in quel modo. Ricordo che era quella una giornata quasi sempre piovosa. O forse mio padre non andava in campagna solo quando pioveva. Allora soltanto si recava a comprare le focacce. Abitavamo tre strade sotto le scuole elementari Cirincione, in via Guglielmo Marconi, al n. 3. Erano le ultime case del paese; c’era poi un terreno triangolare che, a maggio, era colmo di papaveri rossi. Poi villa Roccaforte.

2-Via Mangione.
Mia madre mi partorì a casa con l’ostetrica. I miei genitori abitavano allora con i miei nonni materni in via Mangione, una traversa di via Ignazio Lanza di Trabia. Il trasloco a Palagonia, in via Marconi, avvenne quando io avevo tre anni. Di quei primi anni ho pochissimi ricordi. Dell’herpes alla bocca, ad esempio, mi ricordo e dell’intenso bruciore che mi procurava e che mi impediva di mangiare. Quella volta passò un ambulante che vendeva fave cotte. A gnucculiddra cavura. Disperata mia madre me le comprò. Erano come la semola e finalmente riuscii a mangiare. Ricordo anche che, oltre a mio cugino Matteuccio, avevo un altro amichetto. Un giorno, manu manuzza, io e Luigino, nni misimu a caminari strata strata e pi picca un cavaddru arrampatu nni scafazzava. Un cristianu n’affirrò e nni ci livò ri sutta. -Ah, queste madri- diceva. Lo zio Matteo, fratello di mia madre, non era ancora sposato e abitava in quella casa. Si sarebbe sposato tardi, un matrimonio combinato con una di Alia, avrebbe lavorato nel forno con lo zio Salvatore, ma le cose così non andavano e partì per l’America. Ci visse con tutta la famiglia e ci morì. Lo zio Salvatore, invece, era già sposato e abitava nella casa accanto a quella dei nonni. Ebbe cinque figli. Il grande, Giovan Battista, ebbe improvvisamente delle emorragie al naso, dissero che era leucemia, morì che non aveva venticinque anni. Il più piccolo si chiamava Matteo. Dico si chiamava perché anche lui morì. Bambino. Dopo che ci trasferimmo a Palagonia e mia madre andava dai nonni, mi portava con sé. E io giocavo con Matteuccio. Giocavamo dentro il giardino, dietro la casa. Magari, in passato, là dietro c’era davvero un giardino ma, a quel tempo, vi era rimasto solo un albero, grandissimo, era un enorme albero di gelsi neri. Lo zio Matteo li raccoglieva e ce li dava perché li mangiassimo. Si sposò un nostro cugino; andammo al matrimonio e la sera, come s’usava, nella sala ci fu il ballo. Matteuccio ed io giocavamo a rincorrerci in mezzo alle coppie che ballavano. Indossava una camicia bianca e mentre cercavo di prenderlo per una spalla, gliela strappai. Matteuccio si mise a piangere e sua madre, la zia Filippa, mi guardò male perché fu costretta ad andarsene. Trascorse pochissimo tempo e Matteuccio, improvvisamente, diventò giallo. Non ci fu niente da fare. Penso che la zia Filippa, da quel momento, mi odiasse perché io ero vivo e crescevo e suo figlio, nato lo stesso anno mio, non c’era più. Non mi faceva nessuna festa quando mi vedeva. Quando penso a via Mangione, e alla mia infanzia, mi viene in mente anche la morte del nonno Giovan Battista. Credo che sia morto senza che nessuno se lo aspettasse. Un giorno, tornando da scuola, trovai la porta di casa sbarrata e nessuno dentro. Pensai di andare dagli zii. Quando arrivai, trovai là mia madre; c’erano anche mio padre, che aveva lasciato la campagna, e mia sorella. Il nonno era già acconciato nel letto in mezzo alla casa. Il funerale fu l’indomani. Poi restammo a mangiare tutti insieme. Quando c’era un lutto, cuocevano la pastina col brodo di carne che a me piaceva moltissimo. Quanti lutti! I cugini, il nonno, la nonna già morta da qualche anno... . Abitava la casa d’angolo tra via Ignazio Lanza di Trabia e via Mangione un maestro. Quando mi vedeva era contento, mi chiamava e volentieri parlava con me. Stava con il padre e la madre vecchi e con una sorella ormai grande d’età, e nubile. Si innamorò ma ai suoi la donna che voleva non piacque e gli fecero la guerra. Un giorno si chiuse dentro la sua stanza e si impiccò. Oltre alla famiglia del maestro suicida, in quella via ricordo che ci abitavano i Pipituna e i Russuliddri. Di un’altra famiglia il soprannome però non lo ricordo, forse perché non ne avevano, ma il cognome. Giammarresi si chiamavano ed erano comunisti. I miei li guardavano con disprezzo. Non è che capissero molto di politica ma andavano in chiesa e ascoltavano quello che il prete diceva sui comunisti. E avevano un parente straricco, il più ricco del paese, perciò non potevano che essere contro i comunisti. Così, quando si parlava di quei Giammarresi, mia sorella, o mio padre, o mia madre cominciavano a cantare, sulle note di bandiera rossa, quella dei comunisti appizzati o muru.

Butera

3-
Avanti pipi
e mulinciani
i comunisti
sù muojti
i fami.
I comunisti
appizzati o muru
cu passa passa
ci sputa nculu.

4-Il west.
Di quel posto io ricordo l’odore delle mele e delle arance muffite. Cercavamo nei mucchi di quella frutta. Una mela che, levando il fradicio, si potesse ancora mangiare c’era sempre. O un’arancia. Quando il mercato finiva, e chiudevano tutte le baracche, spesso andavamo a vedere cosa avessero lasciato. O mele o arance. Scartavano quelle mezze fradicie e le lasciavano lì, negli spazi. Dicevamo che quel posto era il west proprio per tutte quelle baracche di legno e lamiera allineate l’una appresso all’altra cominciando di fronte piazza Garibaldi e finendo di fronte e dove finiva la scuola Cirincione, oltre la strada. E chiamavamo sceriffo il vecchio che ne era custode. Le baracche erano costruite sul filo della strada che, d’estate, era piena di polvere, e d’inverno, per le piogge frequenti, era solo fango. Anche per questo motivo quel posto era il west. Ma c’era una cosa che col west sicuramente nulla aveva a che fare. Sovrastava quelle baracche un alto obelisco di ferro che terminava con un’aquila. Era certo una cosa fascista ma, a quel tempo, niente potevo saperne. Ci rimase per molti anni ancora e fino a quando, una notte, un vento fortissimo non lo spezzò in due. Fu l’occasione per rimuoverlo. Dietro le baracche, in corrispondenza di piazza Garibaldi, c’era uno spiazzo libero dove, di tanto in tanto, si sistemava la casa viaggiante, la carovana dicevamo noi, di don Alberto e della moglie. Quando don Alberto, stanco di girovagare, veniva per qualche settimana a Bagheria, faceva la nostra felicità. Portava infatti il biliardino e noi ragazzini, da don Alberto, passavamo interi pomeriggi a giocare. Ancora non era tempo di flipper né di macchine mangiasoldi, con queste cose sarebbero arrivati anche i juke-box. Arrivarono con un signore che chiamavamo Giummo o Giummiddru in un locale ch’era là vicino, dove finiva il corso Umberto. S’arricchì che aveva il locale sempre pieno, camminò con abiti sempre nuovi ed eleganti, figurarsi che portava pure guanti e cappello, s’impoverì perché spendeva e spandeva, dovette chiudere. E invece un altro che aveva il locale accanto, con flipper, macchine mangiasoldi, juke box non chiuse se non quando diventò troppo vecchio e morì. Questo aveva anche una squadra di calcio; era sposato ma faceva cose strane con i ragazzini. A lui pareva normale uscire il coso dai pantaloni e masturbarsi facendosi guardare.

5-Villa San Cataldo.
Si chiamava Fiorenza (è morto da qualche mese) ed era un frate gesuita. Guidava un pulmino. La domenica saliva il corso Butera, percorreva poi il corso Umberto e arrivava a Palagonia. Qui aveva caricato tutti i ragazzi e poteva tornare a villa San Cataldo. Per farci assistere alla messa. E per giocare, dopo la messa. Il portinaio era un vecchio frate, fratello Aspromonte, che noi chiamavamo “frate peli nelle orecchie”, perché da queste gli usciva un vero e proprio ciuffo di peli neri. Padre C., poverino, era tentato di toccare i ragazzini. Cercava di vincersi. Io questo lo capivo. Si vinceva ma, a volte, diceva a qualche ragazzino di mettere le mani a pugno e cercava di sollevarlo da terra. Così lo toccava.

biagio Napoli

Biagio Napoli

Luglio 2016.

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