"Maladie de jeunesse" - di Maurizio Padovano

"Maladie de jeunesse" - di Maurizio Padovano

cultura
Typography

Sarà la melodia che tradisce le sue origini folk antillane, sarà il cantato di Henri Salvador che preannuncia la stagione della Bossa Nova di Joao Gilberto (saudade musicale per definizione), ma quando cominciano a scorrere le prime immagini di "Maladie d'amour" di Mimmo Buttitta lo spettatore comprende immediatamente che sta iniziando un percorso a ritroso che non smetterà di guardare al futuro; di cercare una idea di futuro in qualche modo simmetrica al grumo di sogni e aspettative su cui si fonda ogni progetto di vita, individuale o di gruppo che sia.

Soltanto che quel guardare indietro ricorda l'angelo della storia di Walter Benjamin, e dove si dovrebbe vedere il suo percorso netto, si intravedono cumuli di macerie che quel passato non lasciava supporre. Buttitta – uomo schivo e rigorosissimo, misurato nei gesti ma di enormi, trattenute passioni – ci concede con questo lungometraggio di quasi un'ora l'occasione più unica che rara di gettare uno sguardo voyeuristico nel privato della giovinezza di una generazione – quella di Mimmo Buttitta stesso e dei suoi amici più cari - che è rimasta una potenzialità inespressa, un ramo infruttifero dell'albero dell'Italia repubblicana appena nata, quella che lo storico Guido Crainz ha definito "il paese mancato".

Maladie d'amour, un racconto del tempo è stato presentato lo scorso 18 ottobre al Museo Internazionale delle Marionette Antonio Pasqualino di Palermo  (foto di copertina), il luogo ideale per comprendere il rischio che corre la memoria di noi tutti quando smette di essere legame tra le generazioni dei padri e dei figli e si museizza. Del lungometraggio hanno discusso, al termine della proiezione, il Prof. Nino Buttitta e il Prof. Franco Lo Piparo che hanno entrambi, ma in modo diverso, sottolineato l'assenza, nel racconto di Mimmo Buttitta, di qualsiasi tentazione di autocompiacimento nostalgico per una stagione ormai andata, per un irrimediabile così fu. Come ha notato Franco Lo Piparo Maladie è piuttosto una riflessione sul passato che non passa, una vertiginosa interrogazione che – tra Proust e il miglior Tornatore – delinea la storia di un gruppo di giovani che hanno fatto in tempo a vedere la guerra, hanno sognato un paese nuovo e migliore negli anni della ricostruzione, ma hanno dovuto accettare, senza alcun cedimento morale, quella lunga e velocissima deriva che dal mutamento antropologico, già individuato da Pasolini negli anni del Boom, conduce fino alla baumaniana liquidità del mondo di oggi, così lontano da certe premesse.

C'è una vecchia e incrollabile convinzione che ha animato i racconti dei più grandi narratori tra Otto e Novecento e che per certi versi è diventato un caposaldo – forse anche un luogo comune – della teoria letteraria: se racconti una piccola frazione di mondo, se racconti un villaggio, finisce che racconti del mondo intero. A certe condizioni, il racconto è un cannocchiale rovesciato: dietro il microcosmo si delinea e acquista forza il macrocosmo, la rete globale di cui ogni singolo nodo replica e miniaturizza le caratteristiche generali. Come ha ricordato il Prof. Nino Buttitta citando Vico, per comprendere un fenomeno, e il microcosmo che lo contiene, bisogna osservarne e comprenderne la genesi. Maladie, scegliendo come luogo d'elezione la cornice paesaggistica delle basse Madonie e Gibilmanna in particolare, racconta le genesi e la metamorfosi di un'amicizia, di un legame particolarmente forte che unisce un gruppo di giovani i quali – giovani come la Repubblica appena nata – sono ansiosi di collocare i talenti di cui ognuno di essi è portatore nel contesto rassicurante, ma chiuso, inevitabilmente chiuso, del loro circolo ellenico. Tutti, ognuno a suo modo, nutrono un rapporto profondo con l'arte o sognano di occupare nella nuova società italiana una posizione che sia la concretizzazione dei loro sogni. E invece, l'irrompere implacabile dell'età adulta nella loro giovinezza - così come l'ingresso del Paese in una dimensione di cinismo e ipocrisia collettiva che tradisce le premesse migliori gettate a fondamento della Repubblica - incrina il rapporto con l'utopia di questo gruppo di amici. Incrinatura che si traduce, per quasi tutti loro, nel fare un passo indietro rispetto ai dettami interiori del talento; ma che non sarà mai cedimento morale e rinuncia a una visione eterodossa di un presente di cui avvertono sempre di più la grigia pesantezza. La purezza del loro sogno, ad onta delle rinunce, rimarrà intatta nel durare di una consuetudine amicale che non si arrende al tempo, ma che inevitabilemnte trasforma il luogo d'elezione di tale sogno in qualcosa che - nell'inesorabile scivolare verso un futuro così diverso da ciò che si era immaginato e sperato - acquista i tratti di un incrocio tra la rosebud di Citizen Kane e la madelaine della Recherche du temps perdu.
La mia amica Letizia Galioto al termine della proiezione mi ha confessato di avere avuto l'impressione di avere assistito a una sorta di anti-Vitelloni. E la sua intuizione, di alta precisione evocativa, ha confortato la mia prima impressione di questo racconto filmico. Infatti in Maladie la brigata di giovani che trova in Gibilmanna, nel suo silenzio e nella sua bellezza fuori dal tempo, il proprio luogo d'elezione non è in nulla apparentabile alla schiera felliniana di scansafatiche con velleità di successo effimero ( quasi degli antesignani dei 15 minuti di celebrità vacua e televisiva del Wahrol del decennio successivo) che alla fine, quasi per tutti i personaggi di quel film, si arena nel moralismo grottesco della provincia più profonda. Non c'è niente nella brigata giovanile di Gibilmanna che faccia pensare a un generazionale gusto per la trasgressione fine a se stessa, o a un tentativo di sfuggire alle responsabilità adulte. C'è invece, nei fotogrammi che isolano momenti diversi delle settimane di campeggio libero all'ombra rassicurante del monastero – i giochi all'aperto, le attività del mondo contadino pre-industrializzato, la meditazione – una specie di ansia di aprirsi al futuro conservando intatto, per quanto possibile, il grumo di utopia che si annida in ognuno di loro e di cui l'esperienza dello stare insieme in una specie di ritorno alla natura è il simbolo più ancestrale. Quei ragazzi non si ritroveranno mai, al risveglio da una sbornia o al ritorno da una zingarata, a rimpiangere il passato come dei Vitelloni qualsiasi, perché al loro passato (al suo nucleo più utopico e onirico) non rinunceranno mai. Anzi lo rimetteranno continuamente in circolo, magari trasformandolo ma facendone comunque plasma che vivifica il sentimento dell'amicizia, dell'essere amico, del particolare tipo d'amore che l'essere amico rappresenta.

Forse la chiave del lungometraggio di Mimmo Buttitta è proprio nella melanconica canzone di Henri Salvador citata nel titolo: l'amore e l'amicizia sono malattie giovanili dalle quali è bene non augurarsi guarigione. Maladie è un film sull'utopia della giovinezza e una scommessa sulla durata dei sogni. Cosa rimane di ciò che è stato sognato in gioventù quando invecchiamo? Sembrerà ingenuo ma di un'utopia giovanile, a chi transita in altre età della vita, non può che rimanere l'aura, o ciò che un tempo si diceva l'ostinata struttura: ma è ingenuità piena di calviniana leggerezza, dato che non c'è nulla che più della saggezza somigli all'ingenuità.

padovano maurizio

Maurizio Padovano

We use cookies

Utilizziamo i cookie sul nostro sito Web. Alcuni di essi sono essenziali per il funzionamento del sito, mentre altri ci aiutano a migliorare questo sito e l'esperienza dell'utente (cookie di tracciamento). Puoi decidere tu stesso se consentire o meno i cookie. Ti preghiamo di notare che se li rifiuti, potresti non essere in grado di utilizzare tutte le funzionalità del sito.