Bagheria come un’infanzia (19)- di Biagio Napoli

Bagheria come un’infanzia (19)- di Biagio Napoli

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1-Al Vittoria. Una volta, ma quand’era proprio giovane e, timido com’era, sicuramente trascinato da altri, mio padre forse andò a vedere le donnine con le gambe nude, al varietà. Ma, al cinema, non ci andò mai.

Non mi proibiva però di andarci, anche se non aveva molta stima per la gente che ci lavorava. Raccontava, ma a lui l’avevano certo raccontato, di quella volta che, finito tutto, ma proprio tutto, caramelle, ascaretti e acqua, chi queste cose vendeva, ed era un certo Saverio che faceva pure le pulizie, appizzava i quadri, e aveva una cicatrice che gli tirava una palpebra, vendette l’acqua, non proprio pulita del secchio delle scope. Cu
zammò. Successe al Vittoria.

2-Spade e corone.
Mi capita di leggere in Quelli di Bagheria le pagine che Ferdinando Scianna dedica ai giochi di strada e quella ( p. 165 ) in cui ricorda il nonno falegname che “gli faceva invidiate spadine”. Anche noi giocavamo alle spade; ci bastava un pezzo di legno della forma e della lunghezza adatte e un pezzo piccolo da piantarvi a croce. Una volta fui invidiato per un legno ricurvo che lasciava immaginare una scimitarra. Quella volta si fece una lotta tra un saraceno e gli altri. Pazienza se erano questi i buoni, i Paladini, io avevo la spada ricurva! Oltre che alle spade, giocavamo ai re e agli imperatori. Ci facevamo le corone unendo con un pezzetto di legno tre o quattro foglie carnose del grandissimo ficus ch’era (e ancora è) dietro Villa Roccaforte.

3- Mio cugino Pieruccio, quello che abitava in via Gigante, sempre mi ripeteva l’ultima strofa della poesia di Leopardi Il sabato del villaggio cercando, forse incongruamente per la mia età, di farmene comprendere il significato.

4-Secondo ricordo di mio padre contadino.
Mio padre irrigava i limoni in contrada De Spuches. Venne un tale che doveva prendere l’acqua quando mio padre avesse finito. Salutò e disse: “E’ da Campofelice che vengo. Un fazzu avutru chi curriri per ora. E penso pure a mio padre. Correva sempre. Come corro io. E’ morto di questi tempi. Era l’undici di luglio e ora è il sei. Tempi di risvegliata. In campagna è morto. Lo portarono gli uomini. U misiru supra un carriettu e u pujtaru. Io avevo sedici anni, iddru cinquanta!- Si informò sul tempo che ci voleva perché mio padre finisse. Era un uomo alto e magro, tanto magro che la pelle, sulla sua faccia, pareva pittata. Portava con sé una zappa con il manico lungo; il manico di quella che usava mio padre era invece corto e la zappa era di grandezza normale. La zappa di quell’altro era più piccola.  L’uomo lungo disse: “Ne smuove terra, certo, ma uno si rompe il culo a lavorare con una zappa che ha il manico corto! Lo stomaco arriva in bocca e la bocca a terra!” “U stomacu arriva mmucca-disse mio padre-ma scantu ri rarisi un cuojpu nte ncinagghi un ci nnè!” “Giusto. Però usando la zappa col manico corto uno si può ridurre come quello che gli dicevano croccu ri panaru. Piegato in due voglio dire. Ed io uno conoscevo, che era straricco, e possedeva tanta proprietà anche in provincia di Messina e diceva che i campagnoli più scaltri là stanno... “E picchì?” “Perché la zappa con il manico lungo hanno e quando sono stanchi ad essa s’appoggiano, come ad un bastone, e parlano e fumano”. Mio padre finì di irrigare il giardino e l’uomo lungo si allontanò.

5-La Certosa.
Da ragazzino mi capitava spesso di non indossare mutandine, anche se mia madre non voleva e mi rimproverava, e di uscire con i pantaloni sulla pelle. Non ricordo cosa ci trovassi in questo, e perché lo facessi, ma lo continuai a fare per un certo periodo. Una volta che ero senza mutandine andai ai lannari a casa degli zii. Ma, quella volta, mi si strapparono i pantaloni e si formò un lembo volante di stoffa che scopriva un intero gluteo. Non dissi nulla e me ne andai vergognoso prendendo le strade meno frequentate e cercando di fermare quel lembo di stoffa nel solco intergluteo contraendo i muscoli il più possibile. Quasi correndo presi la via Mangione e poi la via Mole arrivando alla Certosa; da lì arrivai alla via Truden, a Palagonia, a casa. C’erano, alla Certosa, le aperture del piano superiore prive di imposte e, in una di quelle basse, a chiuderla, erano piantate trasversalmente delle tavole di legno; le pareti del porticato erano sacrostate, sporche, annerite; sporco il pavimento; davanti alle colonne sostava un carretto pieno di concime e, più in là, un carrozzino e un altro carretto.

Nota.
Di vero in questa storia c’è solo il fatto delle mutandine e dei pantaloni strappati e il ritorno precipitoso a casa. Sicuro, durante quel ritorno, sono passato dalla Certosa; la descrizione di essa però, altrettanto sicuramente, non deriva dai miei ricordi. La storia, in effetti, viene fuori da una strana alchimia mentale. Il fatto delle mutande mi è stato ricordato dalla lettura di un racconto di uno scrittore argentino, Angel Bonomini, il cui libro, I novizi di Lerna, Solfanelli Editore, 1988, di cui quel racconto fa parte, ho trovato durante una delle mie scorribande alla ricerca di libri al mercatino di Ballarò. Il protagonista del primo racconto di quel libro ( in totale sono tre e questo ha per titolo La modella ed è, come gli altri, un racconto fantastico ) era uno che, appunto, spesso andava in giro senza indossare l’indumento in oggetto. Contemporaneamente, volendo scrivere sulla Certosa, mi andavo documentando e leggevo libri e guardavo fotografie. E una ne ho trovato, nel libro Opera prima di Giuseppe Tornatore, Sellerio Editore, 1990; ed è da quella fotografia che ho preso la mia descrizione della Certosa che, come in un sogno, ho aggiunto alla storia delle mutande che non indossavo. E’ una fotografia del 1966, di pochi anni dopo quel fatto, e di quando Tornatore non aveva che dieci anni, che documento ha tirato fuori già a quell’età! Durante quegli anni la Certosa era una stalla; negli anni a venire il degrado sarà ancora maggiore fino a determinarne addirittura il crollo dei soffitti. Archivi privati conservano fotografie che permettono di vedere il cielo dalle aperture prive di imposte. C'è ora, nel piccolo atrio dell’attuale ingresso, dal lato opposto al porticato fotografato dal decenne Tornatore, oltre il cancello di ferro tra i due mastodontici pilastri, su un basso piedistallo, un cavallino di legno, giocattolo, con una criniera rossa e delle ruotine, anch’esse rosse, al posto dei piedi. Una bella cosa. Perché la Certosa, restaurata, accoglie il museo del giocattolo e delle cere di Pietro Piraino Papoff, ceroplasta, che sta rifacendo le statue di cera perdute. Mi si chiude il cuore però se ripenso al parco di villa Butera, di cui la Certosa era parte e la cui esistenza, purtroppo per chi ne ha voluto la scomparsa fotografie documentano, mi si chiude il cuore, dico, per quel parco distrutto per fare posto a case abusive e sgraziate con quelle popolari addirittura addosso al palazzetto stile romanico. Ma questa è una storia ancora tutta da scrivere.

Biagio Napoli 

Aprile 2017

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