Bagheria come un’infanzia (22) - di Biagio Napoli

Bagheria come un’infanzia (22) - di Biagio Napoli

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Gente di Bagheria. Piccolo repertorio suggerito dalla lettura di quello di Roberto Alaimo sui pazzi di Palermo. Ma, tranne qualcuno, i bagheresi non sono tutti pazzi.

Uno vendeva bomboloni, barrette di nera liquirizia, lecca lecca, caramelle a carrubba. La cassetta dove teneva questi dolciumi la portava sul palmo della mano destra, sollevata sopra una spalla. Era un uomo basso e gobbo. Caminava e abbanniava.

Casimiro vendeva invece sigarette americane di contrabbando. Il suo posto era davanti al bar Aurora. Era molto guardingo nel fare il suo lavoro. Come se non lo sapessero tutti quello che faceva: carabinieri, polizia, guardia di finanza e vigili urbani.
Uno era bidello alla scuola elementare Giuseppe Bagnera. Pesava almeno duecento chili e lo chiamavano don Papò. Se uno era grasso ci divertivamo a sfotterlo dicendogli bucciuni nchiappatu i sapuni o chiamandolo come quel bidello.
Fortunato possedeva un carretto. Di giorno vi caricava concime. Di notte ci si metteva di sotto, a dormire.
Fortunato solo di nome.
Uno ebbe l’onore di diventare personaggio del cinematografo. Naturalmente nel film Baaria di Giuseppe Tornatore. Era quello che nel dopoguerra comprava e scambiava dollari e che, negli anni settanta, al tempo del movimento studentesco, vendeva cento lire sei penne, tutte che scrivevano.

Pippinu u lupu fu un altro personaggio d’un film di Tornatore, stavolta di quello dell’oscar. Era padrone di piazza Madrice e a mezzanotte la chiudeva. Naturalmente era folle.
Uno era bracciante e comunista. Che fosse comunista ci teneva a farlo sapere e tutti quanti, infatti, lo sapevano. Ridevano di quella sua bicicletta, rossa di colore, cui erano attaccate cento bandierine rosse. Giacomo Giardina, pecoraio poeta futurista, ambulante, due volte attore per Rosi, una volta allucinato becchino che parla coi morti in Cristo si è fermato a Eboli, somigliava a mio padre. Vederlo a villa Palagonia nella foto di Ferdinando Scianna ogni volta mi sorprende ( Quelli di Bagheria, p. 154 ).

Bagheria. Il poeta Giacomo Giardino a Villa Palagonia
Uno faceva il conciapelli dietro un grande portone vicino via Goethe, a due passi dal Municipio. Giunti là, u tanfu n’assicutava. Mario diventò un personaggio letterario. Per merito, naturalmente, di Ignazio Buttitta e dell’unico racconto in lingua e in prosa che pubblicò nel suo La paglia bruciata. Amico del poeta e pazzo per amore. Camminava nervosamente, a scatti, sul marciapiede dell’Aurora e, di scatto, si girava e riprendeva a camminare. Aveva occhi furenti. Era elegante e pulito ma il suo modo di fare e la sua faccia butterata mettevano paura.
Uno aveva una voce che si poteva sentire a cento metri di distanza. Abbanniava per un carnezziere; a volte girava per le strade del paese e riffava una bambola. Faceva pure un altro lavoro: con un secchiello pieno di petrolio e un lungo bastone che finiva con un pennello ad esso attaccato, lubrificava i binari delle saracinesche dei negozi nel corso.
Ciccio a sienti a vuci in estate si attrezzava per vendere bicchieri pieni di ghiaccio raschiato e bagnato di uno sciroppo aromatizzato. Andava in giro in canottiera e un cappellino con la visiera e con scritto SPRINT (Quelli di Bagheria, p. 70).
Uno era caliaro. Scopava un tratto di marciapiede nel corso Umberto e vi stendeva ad asciugare i semi di zucca. Li raccoglieva al tramonto. La gente, la domenica, passeggiava col coppo di calia e semenza in mano.
Vincenzo Girgenti era un pittore e un uomo molto elegante. Aveva i capelli lunghi e, al posto della cravatta o di una farfalla, portava al collo un nastrino nero. Dipingeva preferibilmente acquerelli. Qualche
bicchierino lo beveva. Due avevano un magazzino di limoni che dava lavoro a tante donne. Quando ne avevano voglia, una volta l’uno una volta l’altro, facevano un cenno a una di esse che lasciava il suo posto per andare nell’ufficio del magazzino. Quelle vecchie o larie ammiccavano ironiche. Oreste Girgenti non era parente di Vincenzo, il pittore, e faceva l’avvocato. Aveva casa in via Lo re dove poi ci fecero la Camera del Lavoro. Vedi che cose. In quella casa, dove c’erano montagne di copie del settimanale Il borghese, c’era vissuto uno che sempre fu fascista, durante il ventennio e anche dopo.
Uno andava al cinema e faceva il biglietto per la platea dove c’erano più ragazzini. Si sedeva accanto a uno di questi e cercava di toccarlo. Finì che tutti lo conoscevamo; vedendolo ci mettevamo a ridere e gli stavamo lontani. Anche gli adulti che lo disprezzavano. Aveva una faccia senza zigomi, piatta.
Il selvaggio era un vecchio cotto dal sole che aveva uno stabilimento balneare a Capo Zafferano dalla parte di Sant’Elia. Quello che poi diventò il lido del carabiniere. Non è che ci andassero in molti e lui se ne stava a guardia del “suo” mare. Facevamo apposta ad avvicinarci a nuoto per fargli venire una botta di bile. Allora cominciava ad inveire brandendo un bastone o lanciando sassi.
Uno chiedeva l’elemosina, portava un sacco sulle spalle e un sacco pareva avesse anche sotto l’ombelico ma erano tutti i visceri dell’addome che uscivano dalle sue ernie. Per quell’ingombro camminava a gambe larghe.

L’avvocatu Pintacura
pi na causa pjessi a cura,
L’avvocatu Cimicjolla
pi na causa pjessi a cjolla.

Due erano artisti di strada: uno suonava lo zufolo di canna, u friscaliettu, l’altro due piccole ossa piatte, bianchissime, strette tra l’indice e il medio e tra questo e l’anulare.
A Chiuviddra era una maestra ( lo era stata? ) e abitava una casa in affitto, un solo pianterreno con terrazza, vicino al cinema Capitol dove ora c’è un palazzo. Dava ripetizioni ai bambini che le mamme le affidavano perché era rigorosa. In realtà era vecchia, brutta e tinta. Scappavamo se solo s’affacciava. I bambini li picchiava.
Una era sciancata e aveva pure un braccio difettoso. Aprì, col fratello che era un uomo rossiccio di pelle e di capelli, una bottega di generi alimentari in via Roccaforte. Chiamavano quella bottega o a putia nova o nna sciancata.
Mio padre, a villa San Giuliano, un pomeriggio colse sul fatto un ladro di limoni. Aveva il fucile, poteva fermarlo e mandare Brasi a chiamare la giustizia. Ma quello era un morto di fame. Lo fece andar via con tutto il sacco che aveva riempito.
Uno era un limmitaru tintu. Se c’erano rami d’alberi del giardino al limite con il suo che in questo sporgevano, aspettava una giornata di vento per andare a spezzarli e al vento dare la colpa.
Uno era come compare Alfio della Cavalleria rusticana. Credeva che sua moglie fosse una fedele donna di casa. Quando scoprì che era vero il contrario, coltelli non ne prese né ammazzò il Turiddu di turno. Era un avvocato. Lo chiamarono avvocato corna. Uno era un mafioso irrequieto e voleva diventare il capo. Ma non era ancora il suo tempo e scomparve. Non se ne seppe più nulla. Dissero che lo avevano dato in pasto ai porci. Una ci tirò a cannata o maresciallu e ci spaccò a facci. Una sera che il marito latitante si scurò a casa picchì vugghieva pa frievi, i sbirri u sappiru e ci andarono. Il malato chiese del l’acqua per l’arsura che aveva ma quel maresciallo non volle fargliene dare. Chi raggia! Lo colpì in volto.
Tre li vedevi sempre assieme ma come in processione, in segno di importanza. Prima l’uomo, il marito, poi la donna, la moglie, infine la figlia. Erano scemi tutti e tre; l’uomo era però elegantissimo e aveva cappello e aveva bastone da passeggio. Le donne che gli correvano dietro erano invece molto dimesse. Scemi. L’uomo era però padrone, le donne serve.
Uno era stato falegname e aveva costruito i mobili di mia madre quando si era sposata. Continuavano a chiamarlo con il soprannome di mastro Trispitu.
Uno aveva una bottega alle Anime Sante, ad un angolo della piazza. Oltre ai generi alimentari vendeva altre cose. Per esempio steariche o scupi ri ddrisa o criva. A carnevale ci andavamo per i coriandoli, le stelle filanti, le trombettine e, soprattutto, la puzzolina. Uno vendeva gelsi neri. Girava per le strade già all’alba.-A st’ura varrifriscanu!- abbanniava. Uno era professore di matematica. Se ne andava nei giardini di amici e conoscenti a guardare la perfetta geometria di saie, nturciuniati, zalfine e conche disegnate dalla zappa e dalla fatica dei contadini.
Uno era pittore ambulante. Affrescava soffitti, pareti, banconate prima che arrivasse la moda degli stucchi che ingiallivano e delle carte da parati. Era sui sessant’anni, scuro di pelle ,basso e curvo e portava una barba lunga e incolta. Indossava una giacca lisa e pareva uno che chiedesse l’elemosina. Gli davano un fiasco di vino e una pagnotta grande e lavorava un giorno intero. Il fiasco lo teneva presso di sé. Una era la portinaia di villa Palagonia. La fotografò Ferdinando Scianna ( Quelli di Bagheria, p. 149 ) e Lattuada la volle nel film che girò con Alberto Sordi a Bagheria. Può essere che anche Giuseppe Tornatore l’avrebbe messa in Baaria, se non fosse già morta. Aveva i denti di sopra lunghissimi; sporgevano oltre il labbro inferiore. Dicevano che con quella faccia ci stava bene in mezzo ai mostri della villa. Più volte s’azzuffò con Raoul Aiello, il pittore, quando s’intrufolava dentro la villa se per caso trovava il cancello aperto. Ma anche Raoul, con la sua eccessiva cifosi, ci stava bene in quel posto. Uno era cattivo al punto da picchiare anche la vecchia madre e il padre una sera caricò il fucile e ne attese il ritorno. Gli sparò sul cancelletto di casa. Non lo colpì forse per il buio o perché non volle colpirlo o perché volle solo spaventarlo. Lo uccisero tempo dopo quelli della sua stessa combriccola.


Una da ragazzina era magrissima e graziosa ma aveva un nome brutto: Epifania. La chiamavano Fana, Fanina, Fanuccia e pensavano befana. Giovinetta diventò obesa e quel nome le divenne appropriato. E’ morta che non aveva sessant’anni. Uno raccontava di avere cominciato a lavorare a cinque anni . Andò a raccogliere le olive e aveva un paniere più grande di lui, quando le olive si raccoglievano solo da terra e la raccolta non finiva mai, perché si cominciava ad ottobre e in gennaio ancora restavano olive da raccogliere. C’era una prima passata, quella cioè delle olive che da sole cadevano. E poi una seconda passata. A strantuliata dei rami più bassi. All’ultimo poi a cutulata. Uno che lo sentì parlare disse che allora gli ulivi si lasciavano crescere alti e cutulari era come
rimondarli. C’erano i potatori per la rimonda e per le olive i cutulatura. Questi uomini avevano scale alte quanto gli ulivi ed esse in cima avevano delle corde per attaccarle ai rami; i cutulatura si mettevano allora a cavallo dell’ultimo piolo e giù colpi con la viria...paladini in battaglia parevano. A terra cadevano olive, foglie, rami: a strama si facieva. Per questo gli ulivi producevano un anno si e uno no; ogni cutulata era una potatura. In primavera gli ulivi invece che fiori facevano foglie. Quello di prima ricordò allora quanto dicevano i grandi iniziando a raccogliere.- Ittamunni ntierra/ca u signuri nni guviejna- così dicevano. Le olive cadevano a terra e a terra si buttavano per raccoglierle, ginocchioni accosciati seduti stesi di fianco se la schiena non reggeva più, in mezzo all’erba si cercavano, una per una, dalle dita sfuggivano, ore passavano per riempire un paniere. Uno possedeva un cavallo e una carrozza e trasportava passeggeri da Bagheria a Santa Flavia e Porticello. E poi il contrario. Si chiamava Nicola. Gli restò u gnù Cuola. Gnuri, cioè cocchiere. Aveva una casa di proprietà. Quando morì, vi lasciò tre donne sole: la vedova e due figlie schiette, nubili. Uno era prete. Insegnava greco e latino. O, forse, filosofia. Non ricordo bene. Certo aveva una grande cultura. Si spretò. Non so cosa c’entri ma diceva che la femmina del porco bisognava chiamarla col suo nome, cioè troia. Una era la madre ancora giovane di un nostro amichetto che aveva un fratello più piccolo che giocava con noi. Un giorno quella donna si vestì di nero perché il marito, in seguito ad un infortunio, era morto. Passò poco tempo e i suoi due figli cominciarono a stare per strada anche quando, uno ad uno, decidevamo d’andare a casa. In quella della donna c’era u trasi e nesci. Uno, che forse non era bagherese ma veniva da fuori, era venditore ambulante di coltelli. Li teneva appizzati con la punta ad un pezzo di legno, a grappolo, con i manici d’osso all’ingiù. Un buon coltello, per tagliare il pane e il companatico durante la pausa di lavoro o, al bisogno, fare gli innesti, i campagnuoli in tasca lo tenevano sempre.- M’ammazzo! M’ammazzo!- abbanniava.- Prima m’ammazzo io e poi ammazzo voialtri-.

Non vorrei fare più il medico della Mutua. Distendermi lungo lungo, per il Corso del mio paese, con la testa sulla piazza principale ed i piedi sulla rotonda. Mi coprirò di benzina e mi brucerò. (Girolamo Lo cascio, Un pugno in faccia, p. 9)

Uno aveva un cinematografo, il Roma, il cui tetto improvvisamente crollò e dovette chiudere. Quando fu ricostruito ci proiettarono film da macero, due con un solo biglietto. L’ingiuria del padrone non aveva però nulla a che fare col suo locale. Lo chiamavano infatti u cipuddruzza perché, a Palagonia, vendeva patate e cipolle. Uno invece lo chiamavano piatto e pignata perché queste cose vendeva e altre per la casa in un negozio a Bagheria bassa, vicino al passaggio a livello. Quasi a metà del corso Butera c’era invece la tabaccheria della disgraziata. Quella proprietaria non era bagherese, neppure siciliana. Il marito lo era. Morì. Lei diceva: -O come sono disgraziata. O come sono disgraziata-. Le rimase quell’ingiuria, a lei e alla tabaccheria. Col tempo disgraziata perse il significato di sfortunata e si prese quello di tinta, trista.
Uno, nel mese di giugno, raccoglieva in campagna i fiori di fichidindia e li vendeva in piazza dentro uno scatolo di cartone. La gente li comprava per fare il decotto. Uno andava nel vallone De Spuches, proprio dove esso finisce, dove c’era ( e ancora c’è ) un muro di contenimento in tufo che il tempo ( avrà più di cent’anni quel muro ) e le intemperie hanno reso friabile. Lo sterro che ne ricavava era finissimo. Vendeva quella sabbia gialla per stricare le pignate di rame.
Una vendeva siero e ricotta ma non all’alba come mastro Faro dell’Atrio del cavaliere; apriva infatti con tutti i suoi comodi, alle nove passate. Badavano agli animali il marito e il figlio, già grande questo e rimasto schietto, preferiva stare in campagna. Nessuna lo aveva voluto. Magari odorava di selvatico.
Uno andò da un sarto e si fece cucire un vestito. In piazza spesso guardava l’ora in un cipollone d’oro che tirava fuori dal taschino del panciotto e che era attaccato a una spessa catena anch’essa d’oro. Aveva un ventre prominente e quella catena su di esso sballonzolava. Era tornato ricco dal Venezuela dopo che c’era andato con le pezze nel culo.
Una era la sorella del mio amico Michelangelo. Aveva un nome non bellissimo che il dialetto certo non migliorava. Perché Provvidenza in dialetto diventa Pruvurienzia. O Prurè. Isa Prurè... . Ma lei cantava sempre mentre faceva i servizi di casa. Soprattutto Volare, di Modugno. Poi si sposò con quello che veniva a vendere i pesci nel quartiere.
Uno aveva un carretto dove si impaiava lui stesso essendo tanto povero da non avere né un vero carretto né un asino. Perché quel carretto non aveva dimensioni normali ed era piccolo in modo da potere essere tirato dalle sue braccia. Ci faceva trasporti. Mimmo Pintacuda lo fotografò che trasportava la figlia ( 50 anni di fotografie, p. 65 ). Ci si riposava . Così lo fotografò Giuseppe Tornatore ( Opera prima, p. 8 ). Aveva un’ingiuria, u Mariuccieddra.
A portare sulle spalle le ghirlande di fiori dietro i morti erano in tanti. Due avevano delle ingiurie. Uno si chiamava Cola Pumincella ed era molto basso, un mezzo cristiano ( Quelli di Bagheria, p. 270 ); l’altro Nino
Portala. Questo era sciancato , camminava e s’annacava. Devo fare una ricerca al Comune. Vedere quanti ne morivano in quegli anni. Se c’era un funerale ogni giorno oppure ogni due o tre giorni. Se quei due, e gli altri, un pezzo di pane lo avevano sempre. O quasi sempre. Uno che, fino a poco tempo prima, nel Corso, lo si vedeva camminare normalmente, cominciò improvvisamente a muovere tutte le parti del corpo, a scatti. Ma, ad andargli vicino, si capiva che i suoi non erano movimenti volontari e che era il demone d’una malattia a farlo sembrare un danzatore.

Biagio Napoli 

Giugno 2017.

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