Bagheria come un’infanzia (26) - di Biagio Napoli

Bagheria come un’infanzia (26) - di Biagio Napoli

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Una si vantava del fatto che, sposandosi, aveva portato in dote, al marito, un giardino di limoni in contradaCefalà e che, in quel giardino, che era sabbioso, ci si poteva andare con le scarpine, pure dopo che avesse piovuto, perché sicuro non ci si infangava.

Una aveva il marito in Argentina. Tornò e la trovò con la pancia. Stava in campagna; e dissero che quel campestro con cui era stata, di questo aveva approfittato, violentandola. Ma il marito lo stesso la cacciò via. Si chiamava Rosa. Se parlavano di lei, Rosa fimmina ri casa lo dicevano con molta ironia.

Una dunque tradì il marito emigrato. Avevano già tre figli di cui due erano femmine. Dopo che la madre commise quell’errore, Cosima sarebbe diventata suor Chiara e Francesca suor Maria. Per la vergogna dovettero infatti chiudersi in un monastero.

Uno era il figlio maschio di quella Rosa. Si sposò ed ebbe una figlia femmina. Quel nome, come le toccava, però non glielo diede, perché pure la semenza se ne doveva perdere. E le mise invece quello della nonna materna, Maria.

Uno, il figlio di quella, era andato soldato al tempo della Grande Guerra tornando con un mucchio di soldi tanto che ci coprì il letto grande. In guerra s’era messo in società con i padroni d’una taverna dove i soldati andavano a bere per scordare la paura che avevano di morire . Con quei soldi si comprò il giardino di Cefalà che poi andò alla figlia, quella che il nome della nonna che aveva tradito non l’ebbe, la stessa che diceva di poterci andare in campagna con le scarpine della domenica pure se pioveva. Uno dunque, che era stato in guerra e a questa era riuscito a scampare, se ne andò poi a soli cinquantatrè anni per un calcio sulla pancia del suo mulo. Il medico che quella volta chiamarono forse era troppo giovane per comprendere la gravità di quella cosa.

Uno, quando gli morì il genero, si mise a controllare la figlia per impedirle di fare una cattiva strada. Ma scoprì che la notte apriva la porta ad un uomo che le entrava in casa furtivamente . E cercò di sapere chi fosse. Uno, che era un giovane studente universitario, la notte, quando i suoi bambini già dormivano, si recava da quella vedova. Fu in via Diego D’amico che lo studente, una mattina, perse la vita colpito da una fucilata sparata da quell’altro che là lo aspettava, dentro una macchina, armato.

Una era zita e quasi pronta pi maritarisi. Sua sorella morì dando alla luce una bambina. Lassò o zitu e si pigghiò o cugnatu.

Due si sposarono. E figli non gliene vennero. Naturalmente davano la colpa alla donna. Fecero gli esami e si vide che non era così. La suocera si prese perciò la rivincita e disse all’uomo che era come gli alberi di stradone, belli a guardarsi ma inutili, perché frutti non ne danno.

Una l’unico figlio che aveva lo perse giovanissimo, morto di subito. Finchè ne fu capace si recò al cimitero, ogni giorno, arrivando quando apriva e andandosene alla chiusura. Se ne stava seduta davanti a quella tomba. E parlava con il ragazzo.

Uno morì il giorno di Natale del 1981. Delle auto si erano follemente rincorse con gli occupanti che si sparavano. Quelli erano mafiosi, si sparavano, la corsa terminò nel suo quartiere. Non c’entrava nulla, ma era per strada e fu colpito da un proiettile vagante. Si chiamava Onofrio Valvola, 62 anni, pensionato. Una fu sua moglie che cominciò a urlare e piangere.

Uno era pittore e comunista ( ma non era Guttuso ) ed era segretario della sezione quel giorno in cui venne accoltellato. Poiché, nella chiesa di San Pietro, un prete continuava a predicare contro i comunisti selvaggi e ladri, bisognava parlarci, discutere con lui dei problemi dei lavoratori, fargli smettere quella campagna d’odio. Fu circondato, con pochi altri, da quelli, erano una cinquantina e altri ne venivano, dell’azione cattolica. Dovette sottrarsi. Venne inseguito e preso a colpi di coltello. Gli squarci nella stoffa erano inequivocabili ed era stato quel cappotto , che aveva frenato i colpi, a salvargli la vita. Quella disavventura Nino Garajo l’ebbe a fine dicembre 1945.Uno fu Francesco Gagliardo pittore giovane che tale rimase perché morì a soli 27 anni soldato al tempo della Grande Guerra ma di malattia essendosi preso la Spagnola del 1918. Dall’ospedale militare di Palermo non lo portarono a casa ma alla fossa comune ricoperto di calce perché morto d’infezione e non ebbe una lapide con nome e cognome fotografia date di nascita e morte. Della sua breve ma intensa vita e delle opere ne ha scritto Lisa Sciortino nel primo dei Quaderni del Museo Guttuso.

Uno si può proprio dire che avesse passato tutta la sua vita dentro il Municipio. O come consigliere comunale, o come assessore, o, una volta, anche da sindaco. Ogni volta veniva eletto. In periodo elettorale faceva il giro dei quartieri. Il codazzo che aveva era là per ricordare alla gente ( ma tutti già lo sapevano ) ch’era del partito del Signoruzzo e per distribuire nelle case fac-simile e coppi di pasta.

Uno, in un certo periodo della sua vita, era sempre arrabbiato. Aveva saputo che, a Chiarandà, dove possedeva un giardino, ci passava l’autostrada e presto avrebbero confiscato dei terreni. Magari anche il suo. Così era sempre arrabbiato e bestemmiava per niente. La sua casa, invece, era un purgatorio con la moglie e la figlia che sempre stavano apregare.

Una era la proprietaria del bar La Caravella. Aveva il mento storto . Come l’attore. Se dovevamo vederci in quel bar, dicevamo che si andava dalla Totò.

Uno era il proprietario del Lemon Bar ed era pittore. Mario Liga dipinse un grande murale nella casa del dottore Stallone, proprio di fronte al Municipio, su quella altissima parete ( sono tre piani più terrazza ), che dà sulla piazza Messina-Butifar: montagne, campagne, statue, due bambini con il grembiule bianco e il fiocco al collo, un contadino pensieroso, un tronco d’albero ai piedi del vecchio, una ruota di carretto. Roba del 1977. Dopo qualche anno Mario Liga lo si vide riprendere quel dipinto già in parte rovinato dal tempo, dal sole e dalle intemperie. Quel murale avrebbe ora bisogno d’un nuovo restauro; uno ci vorrebbe che lo facesse al posto dell’autore che non c’è più. Come è avvenuto con l’opera di Mario Tornello.

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In quel 1977, infatti, Mario Tornello venne da Roma per dipingere un altro murale in Piazza Garibaldi sulla parete al di sopra dell’Emporio Morana; rappresenta uno dei due pilastri, quello del lato della farmacia, a sinistra di chi guarda verso la Madrice. Carlo Puleo , che era amico di Tornello, e come il suo amico è pittore e scrittore, il 14 ottobre del 2012, una mattina di domenica, su un carrello elevatore, quel murale lo ha restaurato ripulendolo, ravvivandolo nei colori, fissandolo con uno spray trasparente.

Uno piantò alcuni ulivi a pochissima distanza dal limite. L’altro niente gli disse. Quegli alberi li sradicò, con una forbice da potare staccò il piccolo tronco dalle radici, ripiantò quelli che ormai erano dei pezzi di legno che, presto, seccavano. Così avvenne e quello non piantò più niente.

Quattro erano cugini, avevano lo stesso nome, quello del nonno, e, uno accanto all’altro, un pezzo di giardino che, intero, era stato del nonno e ai padri poi lo aveva diviso. In campagna spesso si incontravano ed erano contenti perché mai avevano litigato. Vissero, passò il tempo, cominciarono a morire. Uno dopo l’altro, secondo l’età, com’è giusto. I giardini vennero trascurati e poi abbandonati.

Uno era nato in una casa di via Truden e vi stette fin quando si sposò e se ne andò per casa sua. Vi tornò spesso a visitare i genitori finchè vissero. E, finchè visse, a visitare la sorella che là continuò a stare. Poi non ebbe più motivo d’andarci.

Uno era Giovanni Girgenti, poeta e drammaturgo. Scrisse La campana di la Gancia “ episodio scenico in tre atti preceduto da un antefatto”. E’ un’opera che presenta importanti inesattezze storiche ,probabilmente volute. A cominciare dall’antefatto dove, in una riunione di cospiratori nelle campagne attorno a Palermo volta a preparare il 4 aprile , è presente Francesco Crispi che, in Sicilia, c’era semmai l’anno prima per quella rivolta d’ottobre che scoppiò solo a Bagheria. In quella riunione, oltre a Francesco Riso e numerosi altri, non c’è anche Andrea Coffaro? Questa finzione drammatica, con Andrea Coffaro cospiratore e rivoluzionario già prima dei fatti di torre Ferrante, continua nel primo atto. In esso il luogotenente generale del re, Paolo Ruffo, principe di Castelcicala, il generale comandante le Armi della  Provincia e della Piazza di Palermo, Giovanni Salzano, e il capo degli sbirri, Salvatore Maniscalco ( il gotha borbonico ) lo sottopongono, insieme a Francesco Riso, ad un lungo interrogatorio senza tuttavia ottenere  alcuna confessione. Nel secondo atto la scena cambia , ma non la finzione; dal palazzo del Castelcicala, ci si  trova ora nel chiostro del convento della Gancia dove i due vengono sorpresi dall’attacco dell’esercito che  stronca la rivolta sul nascere. Francesco Riso viene gravemente ferito. E Andrea Coffaro? Nel terzo atto la  scena si sposta nell’ospedale di San Saverio dove Francesco Riso sta per morire. Già le 13 vittime, di cui un  personaggio elenca i nomi, sono state moschettate; tra esse, naturalmente, Andrea Coffaro. E’ stato catturato alla Gancia? E’ riuscito a fuggire per esserlo poi a Bagheria, dopo pochi giorni, a torre Ferrante? L’autore non ce lo dice. Curiosamente lo dicono i bambini della scuola elementare Giuseppe Bagnera quando preparano e rappresentano Eroi del ‘60 in tre brevissimi atti. Stesso canovaccio dell’opera del Girgenti con la riunione dei cospiratori addirittura in casa di Andrea Coffaro e pur’anche la presenza di Rose Montmasson, moglie di Francesco Crispi. Fallisce la rivolta della Gancia e Andrea Coffaro riesce a fuggire. Il terzo atto racconta torre Ferrante. La letteratura dà risposte agli storici che tutt’ora si interrogano su come decifrare l’episodio della torre al di fuori di ogni retorica risorgimentale e in assenza di documenti.
Ma, appunto, è solo letteratura!

torre ferrante

I fatti di torre Ferrante. La rivolta della Gancia è fallita. A Bagheria, però, già dal 5 aprile viene posto sotto assedio il presidio borbonico della casina Inguaggiato. Dopo tre giorni di assedio e di scaramucce con morti da un lato e dall’altro, arriva da Palermo il generale Surry con duemila uomini e i bagheresi, poiché impari è lo scontro, si disperdono nelle campagne. Il 9 aprile, giorno di pasquetta, per una operazione di controllo del territorio, una colonna di regi esce dalla casina dove è acquartierata percorrendo lo stradone che lascia giunta ai Tre Portoni. Intanto, a torre Ferrante, i Coffaro sono pronti a difendere la proprietà Viola, di cui Andrea è castaldo, dalle scorribande della soldataglia. Quella torre è per loro abitazione e luogo di guardianeria. Andrea Coffaro si posiziona alla finestra, il figlio Giuseppe sale in terrazza, le mogli dei due sono pronte a porgere le munizioni. La truppa avanza facendo uso delle armi; giunta presso l’arco del Padreterno, si trova però a tiro di padre e figlio che iniziano a sparare. Lo sbandamento dei soldati, colti di sorpresa, è comunque soltanto iniziale. Rispondono al fuoco e colpiscono a morte il Coffaro più giovane; l’altro, presto, finirà le munizioni. Come pensavano di poter fermare in due soltanto, seppur decisi, ( ma c’era anche Giacomo Restivo ) una colonna di soldati che poteva peraltro avere altri rinforzi? Atterrarono la porta della torre i regi ed entrarono.

Uno era Giacomo Restivo, fuochista, che abitava in via Corsa Vecchia ( oggi via Ciro Scianna ) presso torre Ferrante. Gli è stata dedicata una strada. Questa si trova tra la via Bixio e la via Del cavaliere, vicino alla via Fuxa e alla via dedicata a Pietro Inzerillo morto, quest’ultimo, nella battaglia del ponte dell’Ammiraglio il 27 di maggio. Giacomo Restivo che, dopo i fatti di torre ferrante, sarà garibaldino, è perciò in ottima compagnia. Durante l’attacco violento, lungo ,disperato, mentre la torre Ferrante cadeva …Giacomo Restivo intervenne sparando senza pietà le sue bombe fatali sulle truppe assedianti…ebbe l’idea magica d’illudere gli altri reparti borbonici esitanti che si avvicinavano coi suoi mortai smisurati che tuonando a distanza, davano la impressione di numerose artiglierie cannoneggianti; di fronte a questo formidabile assalto che sventrava l’atmosfera ad enormi vampanti squarci di scarlatto fuoco esplosivo, i Borboni si misero in fuga scemati e feriti e le altre squadre regie sopraggiunte volsero le spalle atterrite ( Castrenze Civello, poeta futurista ).

Due erano padre e figlio, un ragazzo questo. Il giorno d’Ognissanti raccolsero le olive. S’ammazzarono di fatica perché allora non s’usava ancora l’abbacchiatore a batteria e dovevano raccogliere con le mani o con il pettine o con la viria. Con tutto questo dentro i sacchi c’erano almeno trecento chili di olive. Si presentarono armati e quelle olive gliele rubarono.

Uno si chiamava Masuzzo quando era picciotto nella bottega della Madrice. Quando si mise a riparare biciclette nella sua bottega di via Milazzo diventò Mastro Masuzzo.

Uno era il padre di un mio amico. Alto e corpulento aveva il volto butterato dal vaiolo. Gli avevano dato il posto di bidello perché era privo di un braccio, perduto in guerra.

Uno s’ammalò di diabete e la malattia gli distrusse le arterie. Così lo amputarono. Prima ad una coscia, poi all’altra. Una era bidella ed era sua moglie. Se lo caricava sulla pancia prendendolo da sotto le ascelle e lo metteva sulla sedia a rotelle. La stessa cosa faceva quando doveva sistemarlo a letto.

Una, che era popolana e non aveva avuto molta istruzione, a certe parole che sentiva, dava un significato diverso da quello che avevano, magari opposto. Per esempio, alla parola omosessuale. Così, una volta, parlando di uno che era femminaro, disse che era un uomo sessuale.

Uno era invece professore alla facoltà di economia e commercio. Di estrazione contadina continuava a piacergli la campagna. Fu così che quella volta salì sopra un ulivo e cadde rompendosi la spina dorsale. Passò il resto della sua vita su una sedia a rotelle. Ri nciuriu avieva u maccarruni. Roba ri ddra ‘ncapu e Lannari.

E uno fu mio padre quella volta che, già vecchio, desiderò andare ancora una volta in campagna e volle che glielo portassi. Là cadde a terra, al suolo adagiandosi con un fianco e con un braccio. Disse subito che non s’era fatto alcun male, che non gli era girata la testa, che era inciampato. E disse pure che ormai, con l’età che aveva, non era più cosa e che se non lo portavo più in campagna, non si sarebbe offeso.

E una fu mia madre che, a novantatrè anni, e fino ad allora era stata perfetta di fisico e di testa, s’ammalò della schizofrenia degli anziani. Era un’estate caldissima e forse era stato il caldo a provocarle quelle allucinazioni. Piacevoli dapprima perché sentiva gente che si divertiva, nel quartiere vicino, e cantava le canzoni della sua giovinezza. Poi, invece, cominciò a vedere cose che la facevano piangere e disperare. Gente rissosa che litigava, persone che facevano del male ad altri, uccidevano, anche me stavano per ammazzare, perché nessuno faceva niente? Perché non si chiamava la giustizia? Le pillole la calmarono. Forse troppo. E dal letto non s’alzò più. Ebbe le piaghe e dopo un po’ di tempo morì.

E una era mia sorella certe sere che si metteva a dire indovinelli. Per esempio nto’n cammarinu, c’è un signurinu, chi manu ncianchi e u falarinu oppure cento nidi, cento uova, cento paia di lenzuola oppure ncapu pilu sutta pilu e nto mienzu u mariuolu .O anche quello della scrittura bianca campagna, nivura simienza, l’omu chi simina, siempri piensa che io ho conosciuto perciò prima di leggere Sciascia. Sicuro dello scrittore nulla sapeva mia sorella.

Biagio Napoli

Novembre 2017.

 

 

 

 

 

 

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