Ascesa e declino della Sicilia capitalista - di Piero Violante

Ascesa e declino della Sicilia capitalista - di Piero Violante

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Il saggio. Il grano, lo zucchero e la seta. Lo studio di Nino Morreale che sarà presentato il prossimo giovedì 19 aprile alle ore 18,00 presso Palazzo Cutò a Bagheria, analizza la produzione economica tra ‘400 e ‘600.

Nel libro “Insula dulcis.L’industria della canna da zucchero in Sicilia, secc. XV-XVII”,(2006), Antonino Morreale ha ricostruito la storia “moderna” dello zucchero per inserire elementi di capitalismo nello stereotipo dell’arretratezza e dell’immobilismo.La storia della Sicilia- commentammo- come un “multiversum” che non si può ingabbiare in un solo paradigma, pena la sua trasformazione in destino inappellabile. Allora non sapevamo che quel libro fosse una sorta di “mossa del cavallo” per colpire il bersaglio grosso : il Re Grano. Con “Capitalismo in Sicilia.Grano zucchero e seta nei secoli XV-XVII”(Rubbettino, 2018, pp.264, euro 20), Morreale colpisce l’obiettivo. Un grosso colpo. Un libro che trasuda sovrana e circospetta padronanza delle fonti, scritto con finezza analitica, passione, ironia. Affollato con accanimento da documenti, grafici, tabelle per evidenziare, stimare, chiarire, correggere,ipotizzare, che vaoltre i manoscritti settecenteschi, grazie alla disponibilità (soltanto dal 1993) delle carte del Maestro Portulano e (dal 1997) di quelle del Tribunale del Real Patrimonio dell’Archivio di Stato di Palermo.
All’origine c’è l’esigenza di verificare se ci sia discordanza tra la Sicilia dinamica dello zucchero e la Sicilia immobile del grano. La conclusione è che la ricerca non ha fatto emergere questa pacifica coesistenza e reciproca indifferenza quanto pouttosto dal cuore stesso della Sicilia del grano caratteri “incompatibili” con il feudalesimo, l’arretratezza, il sottosviluppo.
“La Sicilia del grano nella parte interna del val di Mazara,-scrive Morreale- quella della vite dappertutto, la Sicilia dello zucchero e del riso, su tutte le coste, quella del gelso e dell’olivo sulle impervie montagne del val Demone, ne fanno una sola che produce in modo nuovo, che cresce dal 1465 al 1630 e vive poi una profonda crisi destinata a durare per tutto il secolo, forse fino al 1730”.
Nei primi tre capitoli , tutti incentrati sul grano, Morreale delinea il grande sviluppo tra fine ‘400 e primi decenni del ‘500 e bloccata nel 600 e trasformata in stagnazione.Nell’ultima parte relativizza il grano in presenza delle altre colture.
Nella crescita, la stima di Morreale della produzione di grano ammonta a 1,4 milioni di salme che riesce quasi sempre a garantire il grano per la popolazione che raddoppia e, per tutto il ‘500, quantità importanti per gli acquirenti esterni decisivi per la crescita.La produttività riesce a str dietro a un’urbanizzazione eccezionale.I ceti proprietari si lanciano nell sfruttamento di queste risorse,Dalla fine del ‘400 si assiste ad un “nuovo protagonismo della proprietà della terra”con la nobiltà in primo piano. Forte la risposta del baronaggio, cpome chiara è la percezione della profondità della trasformazione in atto dei rapporti di produzione. Morreale sottolinea come segmento più vivace di questo modello le masserie (come lo erano i trappeti per lo zucchero): vere e proprie fabbriche di grano, di proprietà dei baroni e gestita da amministratori o in mano ai gabelloti che sono imprenditori agricoli che pagano una gabella ai proprietari e i salari ai lavoratori, rendendo evidente la gerarchia tripartita del capitalismo agrario. Un grande ciclo di espansione che è comune ad latre colture più difficili come lo zucchjero che va in crisi per problemi commerciali, la seta per problemi tecnologici, mentre la vite e l’olio poco esposte alla domanda esterna non subiscono contraccolpi. Invece quella del grano, sostiene Morreale, fu una crisi totale, più profonda e generalizzata. Ma non è stata una crisi commerciale.Fu una crisi di produzione:”La produzione rallenta perché rallenta òa produttività, perché rallentano gli investimenti produttivi e la domanmda e gli investimenti calano perché vengomo deviati verso i lussi improduttivi e la domanda cala perché i redditi bastano appena alla sopravvivenza”. Cresce l’ineguaglianza in Sicilia come cresce in Europa. Sempre più ricchi i nobili, in crisi il ceto medio dei “burgisi”, mentre calano i salari. E qui l’affondo interpretativo:”Il baronaggio non si dimostrò all’altezza delle nuove difficoltà.Il facile coraggio mostrato nella fase di crescita di andare a toccare, beninteso a proprio vantaggio, i rapporti di produzione- annota Morreale- non ebbe né poteva avere una replica adesso che si trattava di tosare l’ammontare della rendita”. Così fu persa la prima grande sfida della modernità:l’incremento della produttività agricola.”Si sarebbe potuto attaccare i cavalli agli aratri pouttosto che alle carrozze-annota con ironia Morreale- ma chi ne aveva le risorse non ne percepì la necessità né la convenienza”. Vanno diversamente le cose nell’Europa delle eccezioni:Olanda e Inghilterra.Lì si chiuse il circolo virtuoso con l’introduzione di tecniche nuove e nuovo colture che rivoluzionarono vecchi equilibri e fecero crescere produzione, produttività e reddito procapite. “Quella rivoluzione agricola che fu la transizione dal feudalesimo a capitalismo, in Sicilia-dice Morreale- non poteva essere transizione al nulla.Come pure si è scritto, ma neppure al feudalesimo, che non c’era più”. La grande crescita cinquecentesca finiva nella depressione secentesca, entrambe gestite dal baronaggio. E qui il secondo affondo che ci interessa:”Poiché il capitalsmo è crescita ma anche crisi e depressione e non si può attribuirgli la prima per relegare la seconda a improbabili rifeudalizzazioni o comodi tradimenti della borghesia”.
Le conoscenze documentarie, ammonisce Morreale, ci spingono oggi verso una lettura non convenzionale della Sicilia. E qui il terzo affondo:”Invece di invocare la rifeudalizzazione, perché non dire che la Sicilia ha vissuto come altri un grande ciclo di crescita plurisecolare del capitalismo mercantile tra la metà del ‘400 e il ‘600 e di declino dal 1650 ? L’arretratezza siciliana infatti non è l’eredità di un feudalesimo che non vuol morire ma la conseguenza di una fase di depressione economica normale in un ciclo mercantile capitalista moderno”.

Articolo di Piero Violante pubblicato su La Repubblica-ed.Palermo 10 aprile 2018.

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