Il mio nome è Carducci e lavoravo in Fiat-di M.Minarda

Il mio nome è Carducci e lavoravo in Fiat-di M.Minarda

cultura
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Sabato 14 alle 18.30 presso la libreria Interno 95 verrà presentato il volume "Il mio nome è Carducci e lavoravo in Fiat" Dialogheranno con l'autore Piero Macaluso, Luigi Cavallaro e Mario Minarda , autore della recensione che pubblichiamo.

Il numero fa gregge. Collettive sono le pecore
che hanno sempre bisogno di tre cose: del pastore,
del cane e del bastone.

L'individuo è libero e arbi-
tro di tutte le sue azioni."
"Parli come un capitalista".
"E voialtri come dei preti."
E venivano alle mani.
E nel migliore dei casi:" Con te non si può discutere.
Voi anarchici siete dei poeti"

V. Pratolini, Metello

 

Ci si trova subito davanti a destinazioni di lettura multiple aprendo in mano il libro di Piero Macaluso "Il mio nome è Carducci e lavoravo in FIAT" (Palermo,Edizioni La Zisa, pp.45), in quanto già il sottotitolo «monologo teatrale» indicato in copertina, implica come è ovvio, da parte del lettore una immediata disposizione all'ascolto, o quantomeno allo sguardo di una immaginaria performance scenica, più che di una silente concentrazione sugli inermi segni della scrittura.

Eppure il testo di Macaluso presenta sin dall'inizio una caratterizzazione dinamica, per cui è lecito interrogarsi sulla natura doppia, orale o meno, della parola, pronunciata prevalentemente in prima persona dal protagonista.

Ma, volendo in qualche misura circoscrivere l'interpretazione a livello stilistico tematico, si nota come siano compresenti tra le righe più linguaggi, più codici, e diversi accorgimenti retorico formali che vanno da volute sgrammaticature basate su calchi dialettali, a venature onomatopeiche e lemmi simbolici ripetuti in cadenze anaforiche; un dettato del genere, anche per precisi rinvii ad immagini e metafore, sottolinea e rimanda ad un modulo intarsiato da vivi sprazzi lirici.

Un monologare attraverso sostrati di poesia(come risulta evidente tra l'altro dai palesi versi carducciani inseriti) che risulta incardinato in una sorta di processo di
formazione dalla lucida, progressiva presa di coscienza (per dirla alla larga con i vari Joyce o Svevo, che ci ricordano la così detta tecnica dello stream of consciousness).

La storia dell'operaio Giosuè Carducci inizia infatti da un percorso a ritroso nella memoria che attraversando le «fasi» concrete della sua vita in fabbrica, dall'«assunzione» al «licenziamento», passando per la cruciale «lotta operaia», lima riflessioni sardoniche e amare sul senso del diritto al lavoro oggi, ma soprattutto sulla qualità pessima dello stesso in condizioni di totale indifferenza.

Una scansione dunque che autorizza a seguire con la mente una vera e propria catena di montaggio, in cui le tappe emotive e le azioni meccanicamente frustranti compiute da Giosuè, costituiscono i perni semantici attorno ai quali è avvitata la sua altalenante alienazione.
A partire dall'inizio il personaggio gioca il tasto della sua omonimia con il grande poeta premio Nobel e ciò introduce direttamente al tema simbolico della poesia all'interno del testo.

Viene a crearsi come uno iato, una inconciliabilità tra dimensione ideale, libera, spontanea dell'animo umano e materialità reale annidata nel vorace desiderio di ‘macchinizzare' tutto e tutti.
Se la prima componente si esprime con una specie di poeticità intrinseca allo stesso cuore di Giosuè, intesa ed autoimposta da sé, come fosse un‘canto interiore'- («Io per non impazzire ho studiato un metodo tutto mio: canto. Canto dentro, senza parlare») - la seconda dimensione è connessa all'incessante frastuono esterno che simboleggia il caotico mondo della ritualità quotidiana.

Un paradosso esposto bene dalla frase in corsivo che chiude emblematicamente la prima sezione: «Minchia, come il poeta; compagni ma in che cazzo di tempi viviamo se pure i poeti vanno a lavorare in fabbrica. »

Frase molto attuale che potremmo facilmente trasporre ai nostri giorni, dove non soltanto (ai limiti di un finto anacronismo che sembra tristemente risorgere) l'operaio vuole ancora, - come recitavano i versi di una canzone di Pietrangeli - il figlio dottore, ma, rovesciando i termini del concetto, il figlio del dottore, l'intellettuale o il letterato che sia, in quanto improduttivo, è costretto a fare, laddove fosse assunto l'operaio a scadenza.

Dall'anarchica confusione giornaliera ecco che d'improvviso, quasi senza sapere come, Giosuè si ritrova impiegato in fabbrica, e si passa a una condizione ovattata e iper-controllata, ma molto più asfissiante e negativa.

Qui si cerca in ogni modo di antropomorfizzare per assurdo un universo fatto di verniciature e metalli,(vedi la «pomiciatura» con la macchina proposta dal capo reparto),di rigidi orari e schemi prestabiliti; l'intento è quello di colorare o fare apparire meno grigio un clima opprimente e stagnante pur nella variazione meticolosa che lo ricopre.

Il protagonista percependo sulla sua pelle effetti devastanti e niente affatto divertenti si accorge lentamente dello stordimento programmato a bella posta dal mondo asettico della produzione, dove nel «caos organizzato» gli uomini come tanti automi «si muovono all'unisono».

Da questa impellente "angoscia delle macchine" , per dirla con la sintesi teatrale del futurista messinese Ruggero Vasari, Giosuè tenta di liberarsi, provando per un attimo a fare inceppare l'ingranaggio.

Ma l'unico sfogo che gli riesce è proferire un sonoro "vaffanculo" al capo; fatto che sbigottisce e anestetizza per un attimo l'intero ambiente lavorativo:

«Tutta la squadra si fermò, tutta la fabbrica si fermò, il mondo intero e la sua produzione industriale si fermarono a sentire il vaffanculo di Giosuè».

Una parola potenziata e allusiva, attraverso la quale si esprime il dissenso, o forse peggio, il disagio e la paura di fronte al diritto di opposizione, alla libertà di pronunziare con coscienza i propri no.

Tuttavia, lungi da sterili piagnistei, nonostante accenni di risveglio, l'operario Carducci si trasforma metaforicamente in un calcolatore automatico, diventa simile a una macchina, ma una macchina con un briciolo di sensibilità:sente costantemente un fischio assordante all'orecchio sinistro, simbolo di spaesamento e incomunicabilità; chiedendosi quale possa essere il nesso tra diritto a lavoro e qualità della vita (vedi,senza cinismo, il modello targato Marchionne!) spera di riacquistare presto nel lavoro il tempo della poesia.

Di riequilibrare le due fasi.

Non un contrasto, ma un ‘contratto' che dia mutua tolleranza e sincera partecipazione alla vera essenza della vita. Riconoscendo che nella fabbrica, come nella società «quel rumore, non è da cristiani», Carducci rivendica la sua lotta a ‘restare umani', dimentica cosa è la poesia ricreativa, ma allo stesso tempo lamenta la mancanza di tempo («chiedo tempo, tempo») per poterla almeno immaginare, comporre nella sua fantasia: «...pure Carducci lo diceva, il poeta,
quello vero, ma per immaginare ci vuole la voglia, ci vuole il tempo.»

Alla fine della vicenda, la realtà della ossimorica‘mobilità-immobile', della staticità pensante penetra brutalmente nel mondo di Giosuè ed ecco che l'anelito poetico, come il tempo interiore ritrova la sua primaria ragion d'essere, e diventa spazio unico per esprimere la sua calorosa grammatica di sentimenti e ansie; il tutto trafuso in un semplice ma vibrato canto che, espresso in un naturale, in un incisivo dialetto chiede soltanto riposo, ma, al contempo, profonde riflessioni sulle speranze e le ambiguità del domani.

 

 


Mario Minarda

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