Era u tempu r'arruspigghiata- di Angelo Gargano

Era u tempu r'arruspigghiata- di Angelo Gargano

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Oh ron Pasquaaali, oh ron Pasquaaali ! Liiiiavaala! Liiiavaaala!

Il grido attraversava campagne e trazzere e arrivava là dove doveva arrivare, e dove ron Pasquali, u "vardianu i l'acqua", attendeva il segnale convenuto: era u tempu r'arruspigghiata.

Allora si chiudeva una "saracina" e se ne apriva un'altra per consentire all'acqua di irrigare un altro fondo, e si calcolava anche il tempo "ra cunnuttata" dell'acqua cioè ca "nno turciunato" continuava a scorrere dal punto nodale della distribuzione.

D'estate, di notte, le campagne, sonnolente di giorno sotto il caldo canicolare, era come se si risvegliassero: le luci dei "fanali" lampeggiavano tra e sotto gli alberi, disegnando forme stranissime, lungo le trazzere falene altalenanti via via si avvicinavano dando forme chiare alle ombre; il rumore discreto dell'acqua che scorreva nne cunnutti, ‘nna saia o ‘nne catusi", o rumoroso quando arrivava nelle vasche 'ru sufuni", ti dava l'idea di qualcosa di vivo, che si risvegliava.

A "casuzza i cani" che era il luogo di concentramento ‘ri vardiani r'acqua o di chi aspettava il proprio turno "p'abbevirare" si faceva l'alba tra una sigaretta e l'altra.
Era u tempu r'arruspigghiata.
Erano centinaia per ogni notte e per oltre cinquanta-sessanta notti dai primi di luglio a tutto agosto nelle varie contrade le persone coinvolte, in questo balletto notturno, tra contadini "c' abbiviravanu", "chiddi c' avevanu a pigghiari l'acqua", "abbiviraturi e vardiani r'acqua".
E nelle lunghe, lunghissime ore di attesa si parlava con quel parlare lento, di chi ha tempo da perdere e quietamente affabula e racconta, e nel silenzio della notte il brusio delle voci si diffondeva ne jardini.
Arruspigghiata era il momento topico della stagione agrumicola.Lungo tutto il mese di luglio migliaia  e migliaia di ettari di agrumeti dovevano ricevere quell'acqua ‘ra Chiana', che era quasi meglio dell'acqua benedetta.
Dall'avere azzeccato il momento e la quantita di acqua da dare alle varie piante, dipendeva il raccolto dell'anno successivo ‘ri "bastarduna", l'oro verde di Bagheria e del territorio degli anni cinquanta e sessanta.
Giorno e ora ( di massima) r'arruspigghiata, veniva contrattato al Consorzio Idro agricolo direttamente col "vardianu i l'acqua"; poi, non esistendo telefonini, l'arrivo dell'acqua si aspettava in campagna.

E talvolta si aspettava ore e giorni e notti, andando a casa solo per un rapido pasto, o addirittura consumando in campagna 'anticchia i  pani e cumpanaggiu'.

Naturalmente dovendo tutti gli agrumeti essere irrigati in un periodo di tempo ristretto, si creavano favoritismi e la distribuzione dell'acqua conferiva al Consorzio un potere enorme, che veniva ovviamente gestito dai mafiosi del tempo tramite i "vardiani".
La scoperta che fosse possibile la produzione dei "verdelli" sarà stata certamente frutto del caso, anche se saranno qualche centinaio i bagheresi che vi diranno che è stato il loro nonno o bisnonno a scoprirlo.
La produzione "naturale" " del limone è quella che si chiama "a robba nova" o" "robba i tiempu", quel frutto di colore giallo limone appunto, la cui fioritura avveniva tra marzo e aprile e corrispondeva al risveglio naturale della pianta, e la cui raccolta del frutto avveniva dopo  poco più o poco meno di un anno; alla "robba nova" si aggiunse la produzione "forzata", "bastarda" appunto dei verdelli, ottenuta facendo "soffrire" ( "a patuta", la "forzatura") la pianta nel primo periodo dell'estate, diciamo giugno, e irrigando poi quando la pianta aveva "patutu" abbastanza, aveva cioè foglie mosce e accartocciate.
L'acqua funzionava come una sferzata di energia , che provocava una seconda fioritura, la cui produzione sarebbe stata poi raccolta nei mesi di giugno-luglio dell'anno successivo, in un periodo in cui, d'estate, di limoni c'era più richiesta e quasi nessuna produzione negli altri paesi.
L'acqua però doveva essere data, come dicevamo, al momento e nella quantità giusta, dosandola pianta per pianta, per evitare che l'albero partissi "a novu", che cioè germogliasse solo in fogliame senza produrre la tipica 'zàira', i cui bocciolini piccoli bianchi, rosa pallido, viola, e quasi invisibili spuntavano già dopo un paio di settimane r'arrsuspigghiata.
"Spararu" ( o anche "partiaru") l'albuli": (tradotto:  sono spuntati i nuovi germogli): era la frase che rendeva più sereno il futuro di qualche migliaio di famiglie bagheresi e del circondario.
E voleva dire tanto.
C'era da sperare in qualche capo di abbigliamento nuovo per la prole spesso numerosa, alla carne o alla salsiccia, che la domenica a tavola non sarebbe mancata, a qualche cannolo o cassata per gli eventi festivi importanti, alle spese per i libri, al corredo per una figlia che si sposava, a potere far fronte ad una spesa straordinaria qualunque essa fosse.
Tale sistema di coltura era un unicum pressocchè irripetibile, perché compatibile solo con terreni "sabbiosi", ricchi di silice, che drenavano cioè rapidamente l'acqua nel terreno.
Tant'è che il tentativo che fu fatto a cavallo degli anni '60 di trasferire la coltura del limone verso la zona collinare dell'interno di Bagheria a Bellacera, l' Accia, ecc.. dove c'erano terreni "critusi"(cioè argillosi) che trattenevano l'acqua in superficie fu disastroso e fallimentare.

E poi 'a cugghiuta ri lumiuna' che vedeva coinvolta l'intera famiglia, donne e bambini compresi, perchè avveniva in estate a scuole chiuse.
La prima raccomandazione che si dava ai bambini, che davano una mano a raccogliere i verdelli era una e perentoria:"un fari spiritiari i lumiuna"; non provocare cioè traumi sulla superficie perché il limone doveva essere lavorato, doveva viaggiare giorni e giorni per arrivare ai mercati del Nord Italia o del centro Europa per andare poi sulle tavole dei consumatori nel giro di una decina di giorni.
I "bastarduna", (che ad onta del loro nome erano molto delicati), venivano raccolti con cura e quasi religiosamente posati rintra i "panara", cesti fatti di canna intrecciata e giunco con manico imbottiti di paglia e tela di sacco, che potevano mediamente contenere circa sette chili di limoni.
Dai "panari" il cui trasporto all'interno del fondo per brevi tragitti veniva affidato ai più piccoli, i limoni poi passavano "nne cartidduna", cesti più grossi, anche questi di canna più robusta e intrecciata, che arrivavano a contenere sino a quaranta chili di prodotto.
I cartidduna venivano poi a spalla, superando zalfini e sipala e distanze anche di qualche centinaio di metri, portati in un punto del giardino dove in genere c'era una vecchia casa agricola, o comunque un piccolo spazio dove venivano svuotati non prima di aver sistemato per terra però, o dell'erba o dei teli per non farli "spiritiare".
Venivano poi i "lumiunara" con i carretti dai magazzini che "scartavano", cioè selezionavano le varie qualità, le migliori li 'ncartavanu' e poi "ncasciavano i limiuni", operazioni che nei periodi di punta per guadagnare tempo venivano fatte direttamente in campagna.


Il prezzo che veniva pagato per ogni chilo di limone era frutto di una contrattazione lunga e talora laboriosa: "u limiunaru" anche se conosceva la "partita"andava prima a valutare ad occhio la qualità del prodotto, e poi proponeva un prezzo: si mercanteggiava e alla fine una semplice stretta di mano valeva più di un contratto di fronte al notaio. Non furono pochi i "limiunara" che fallirono per avere onorato la loro parola e quella stretta di mano.

Talvolta bastava un rapido mutamento delle condizioni metereologiche verso il maltempo al nord Italia o in Europa per far crollare di botto il prezzo dei limoni, come pure periodi di afa e di calura prolungata ne determinavano una tumultuosa ascesa del prezzo..

I "lumiunara", con incredibile abilità e velocità, procedevano alla separazione del prodotto buono dallo "scarto" ( malaforma, ammalignatu, minutu ecc.. che veniva pagata ad un prezzo più basso), facendo passare il limone quando c'erano dubbi se la misura fosse troppo piccola, attraverso un calibro circolare "i ravuogghi", che servivano anche a separare le varie pezzatura di agrumi.
Generalmente il calibro più piccolo era il 16: sotto il 16 ( diametro massimo del frutto inferiore a 16 cm.cioè) il limone veniva considerato troppo piccolo per essere immesso sul mercato.
Poi ogni limone veniva avvolto nei fogli di "carta palina", che generalmente recava il logo dell'azienda che lo commercializzava, e successivamente 'ncasciati'

Poi si disponevano "nne casci", contenitori a forma di parallelepipedo di legno che contenevano una ventina di chili di limoni, che venivano poi ricoperte di carta e chiuse con dei coperchi di legno sottile su cui si fissavano listarelle di legno di carrubbo piantate con chiodini per fissarle bene.
Poi i limoni venivano pesati con la "basculla" o con il più antico sistema della "statìa".
Per quanto riguardava la tara, vale a dire il peso delle "casce" spesso si conveniva su un peso standard.
In qualche caso però il produttore per non avere problemi al momento della "scartata" che era sempre fonte discussione e di liti, preferiva vendere (naturalmente ad un prezzo un po' più basso) "a ringu e ca tara pisata", cioè tutto il prodotto di paro e pesando la tara, proprio per evitare contestazioni.
A quel punto i carretti portavano le "casce" alla stazione ferroviaria, dove i magazzini più grossi avevano un prolungamento di rotaia dove caricavano i loro vagoni, e il limone era pronto per prendere il treno. Talvolta si usavano per il trasporto anche le navi.
Un viaggio che al tempo durava  una decina di giorni. Più o meno il tempo che si impiegherebbe oggi.