Alfabeto baarioto V Quando non c'era la lavabiancheria e si faceva "a liscìa"- di Mimmo Gargano

Alfabeto baarioto V Quando non c'era la lavabiancheria e si faceva "a liscìa"- di Mimmo Gargano

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Il bucato quello ordinario si faceva settimanalmente, nel mastello di legno ," ‘u tinìeddru, che veniva preventivamente "abbuonato" cioè riempito gradualmente con acqua in modo da compensare l'asciugatura cui il legno andava incontro e chiudere così le commessure tra le doghe

rendendolo stagno - o quasi-; su questo si poggiava ‘a tavuliddra" di legno, scanalata, su cui i panni venivano passati e ripassati a forza di braccia fino ad ottenerne la pulizia.

Una frase ricorrente dei "grandi" rivolta a noi bambini per cercare di ottenere una maggiore attenzione a non sporcarci - con scarso risultato in verità- era: " ‘i rrobbi finiscinu ‘nna tavulidda" per dire che una troppo frequente lavatura cui i panni dovevano essere sottoposti a causa della nostra irresistibile tendenza a ridurci come "i porci" finiva per deteriorare rapidamente i capi di vestiario.
I panni così lavati erano poi stesi su fili di zinco tesi ai balconi tenuti tramite dei cappi fatti su pezzi di spago sospesi ai fili "u chìaccu" (le pinze da biancheria erano un lusso che pochi si permettevano); per farli scorrere lungo il filo si usava una canna molto lunga; era in voga un modo di dire per definire una persona molto alta: "è longu comu ‘na canna ri stìenniri".
Poi però, in genere una volta al mese, c'era ‘a lavata rùossa" il bucato grosso che coinvolgeva la biancheria da letto nonché i vestiti normali e da lavoro.
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Si cominciava qualche giorno prima ad "abbuonare" i tinìeddri" - uno grande ed uno più piccolo, si procedeva poi al lavaggio ed al risciacquo dei panni quindi alla stenditura.

Ma la fase caratterizzante di questo evento era " 'a misa 'ra liscia" (la lisciviatura); lenzuola, federe, biancheria personale come sottane e camicie da notte, dopo il lavaggio ordinario subivano in ulteriore trattamento a scopo sbiancante: dopo il normale lavaggio e il risciacquo i panni venivano posti a strati, si " 'ncufunavanu" in una grossa cesta di canne (‘u cartiddrùni), poggiato a sua volta su due assi di legno posti sul bordo del mastello.

In ultimo a coprire l'ultimo strato era stesa una tela grossolana (‘u cinniratùri) su cui veniva sparsa della cenere prelevata dal focolaio della cucina a legna e dei gusci di uova (che allora erano prevalentemente bianchi); il tutto veniva poi irrorato con parecchie pentole, "quaràre", di acqua bollente. (il liquido che filtrava si raccoglieva nel mastello era dotato di un notevole effetto sgrassante e veniva utilizzato per il lavaggio dei vestiti da lavoro).

I ‘rrobbi" restavano una intera nottata a subire l'effetto del trattamento, venivano quindi risciacquati ulteriormente e poi stesi ad asciugare; per alcuni capi veniva praticato un ulteriore trattamento con l'aggiunta nell'acqua del risciacquo dell' "azzuolo", una sostanza granulare di colore azzurro intenso che conferiva al bianco una tenue sfumatura azzurrina.

L'asciugatura si praticava stendendo i capi al sole appesi ad una lunga corda " ‘a corda ri stìenniri" -costituita da due fili di corda arrotolati fittamente l'uno sull'altro i cui capi erano legati a dei grossi ferri ancorati ai muri, -" i crocchi" - e che era sostenuta, ad ogni sei o sette metri, da una "fuccina"; erano queste dei rami, robusti e molto stagionati, di ulivo che avevano la caratteristica di recare alla loro cima una biforcazione che fungeva da sostegno per la corda stessa.

Per migliorarne ulteriormente la stabilità e limitarne gli spostamenti dovuti al vento, la corda veniva ancorata a delle grosse pietre cui veniva assicurata da pezzi di spago grosso - "i pìennuli"- ; divaricati i due fili si inseriva nella corda un angolo del capo da appendere-

L'ultima fase infine era la stiratura procedimento anch'esso tutt'altro che semplice; si attuava infatti con i ferri da stiro a carbone, pesanti e poco maneggevoli e che bisognava di tanto in tanto"svampare"; andavano cioè dondolati energicamente con un movimento semirotatorio del braccio parallelo al corpo, per riattivarne la combustione della brace al loro interno, operazione che ovviamente andava fatta all'aperto.

Naturalmente in quei giorni le normali attività, quale quella di cucinare, subivano quasi una sospensione; si "accummirava" ci si accomodava, spesso si mangiava " 'nsiccu" (cioè cibi non cucinati) o al massimo pasta "squarata" condita solo con un filo di olio.

Era abbastanza frequente nei giorni successivi vedere le donne di casa con i polsi fasciati per curare le escoriazioni procurate dall'effetto congiunto della "stricatura" e da quello dei detergenti, assai poco "delicati" che si usavano allora.

Forse non è esagerato se nel ricordo di un bambino, " 'a lavata ruossa" assumeva allora i contorni di una vera e propria epopea!

La foto di copertina è uno scatto di Paolo Di Salvo