Cronaca minima dalla città in ferie: i giochi di strada di un tempo

Cronaca minima dalla città in ferie: i giochi di strada di un tempo

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Un tempo quando non c’era ancora la televisione o era solo per pochi eletti, il tempo d’estate era quello in cui i ragazzi sciamavano per le strade polverose a praticare, ad inventarsi, a costruirsi gli elementi dei giochi di allora,

considerato che qualche giocattolo si vedeva solo nella ricorrenza dei morti, e consisteva sostanzialmente in qualche bambola per le femminucce,e qualche fuciletto, spada o pistola per i maschietti.

Erano i tempi dei film di cappa e spada , dei film western, era inevitabile quindi che nella realtà dei giochi si tentasse di imitare i duelli in cui si incrociavano cavallerescamente lame, e con pistole e fucili si simulassero scontri e agguati, che scaricavano come pensano ora gli psicologi, la carica di violenza che chi più chi meno, ognuno di noi porta dentro latente.

Il gioco più ovvio e semplice era il calcio, giocato allora con una palla fatta di stracci o carta arrotolata e ben legata con lo spago: duravano giusto il tempo di cominciare una partita e litigare dopo qualche decina di minuti, o non appena la palla si inzuppava in una pozzanghera, o si consumava in maniera irreparabile

La cosa interessante però è la terminologia che usavamo mutuando e storpiando i termini inglesi , che come è noto è il paese dove il calcio è nato.
“Autu” era la palla che andava fuori campo, out si direbbe adesso; “goner” era il corner, il calcio d’angolo; “duriciardu” era invece il calcio di rigore che veniva appunto battuto dagli undici metri, (undici passi per noi), dodici yarde appunto, ed ancora “frichicchiu” stava per free kick, calcio libero.

Poi sopravvennero le palle di gomma, e cominciammo a infastidire parecchio, suscitando le ire e e le reazioni dei vicini per i danni che combinavamo.

C'erano anche, assimilate al gioco, le inevitabili “guerre per bande” tra vivaci ragazzini di quartieri diversi , che culminava inevitabilmente “ca pitruliata”, scambio non proprio da gentiluomini di lanci di pietre, che allora per le strade abbondavano.
I giochi, come le migrazioni degli uccelli, seguivano le stagioni e andavano a folate e periodi: per motivi inspiegabili e misteriosi, c’era il tempo della “stidda”, l’aquilone, quello della “strummula”, oggi trottola(?) quello “ru pacchiu” o “ru mazzaroccu”, un gioco mutuato dal baseball americano, “a prattina”, il pattino,
Dai giochi più semplici e più “classici” che si facevano con niente, “ammucciareddu”, “accustari” che si faceva con tappi di bottiglie e monetine e vinceva chi lanciandolo da una certa distanza lo faveva accostare il più vicino possibile al muro; “ o ciusciuni” in cui si cercava di fare capovolgere con un soffio, dal basso verso l’alto un mucchietto di” ritratteddi”: non c’erano ancora al tempo i volti dei calciatori, ma quello di famosi attori del cinema.
Le ragazzine giocavano con la "corda" oppure con i “ pisuli” cinque pietruzze di mare lisce e levigate , che nelle varie fasi del gioco, a difficoltà crescente, dovevano essere, da sole o raggruppate, lanciate in aria e riprese al volo.

Un altro gioco tipicamente femminile era “a missinisi” , probabile storpiatura dell’inglese "miss nice", in cui con dei saltelli su un piede si percorrevano in maniera programmata alcuni riquadri disegnati con gesso o incisi sulla terra battuta.

“U travu ongu” , gioco per maschi, era una prova di abilità che consisteva nello scavalcare prima un giocatore piegato sulla schiena, poi via via chi riusciva nello scavalco si sistemava nella stessa posizione del primo allungando “u travu”, aumentando quindi il grado di difficoltà del gioco.

C’erano poi giochi che presupponevano una certa manualità per chè lo strumento dl gioco andava costruito: questo succedeva per la “stidda”, l’odierno aquilone, per “la strummula”, oggi trottola, per “a prattina”, verosimilmente il pattino, e “u pacchiu” o “mazzaroccu”, un gioco mutuato dal baseball americano.

La stidda veniva costruita dai ragazzi stessi: pezzi di canna spaccata, rotta in pezzi e sistemata a croce ne costituivano l’ossatura, su cui veniva incollata con farina impastata il foglio ritagliato di carta velina colorata; poi alcune “frinze” laterali per il bilanciamento, il gomitolo di filo, un po’ di vento e via a sognare dietro questo pezzo di carta colorata che volteggiava in cielo.

“A strummula” era invece una sfera di legno duro “piscipagnu”, (palissandro), della circonferenza di una decina di cm. in cui era inferito un pezzo di ferro terminante a punta e che fuoriusciva per 3-4 cm.
Attorno al “pizzu r'azzaru” e alla sfera si avvolgeva uno spago, e poi con un movimento da veri esperti, rapido e coordinato, si lasciava svolgere lo spago.
Se tutto funzionava a dovere, “a strummula” cominciava a girare velocissimamente su se stessa sulla punta di acciaio: vinceva chi era capace di farla girare per più tempo.
I più abili riuscivano a farla saltare , sempre mentre girava, sul palmo della mano e a “spingere” con la propria, fuori da un recinto segnato per terra, quella del giocatore avversario.
Naturalmente c’erano poi varianti del gioco.
“A prattina” rchiedeva l’aiuto di persone più grandi perché dietro lì apparente semplicità del manufatto c’erano operazioni tecniche complesse.
I due pezzi di legno, che costituivano la struttura, dovevano sistemati verticalmente l’uno rispetto all’altro con una sorta di primitivo giunto cardanico; c’erano da sistemare le ruote “ a pallini” per garantire lo scorrimento.Insomma c’era da perderci una giornata.
Infine “u pacchiu” o “mazzaroccu”: probabilmente introdotto dai nostri emigrati che tornavano dagli U.S.A., o più semplicemente dai militari americani che vennero a liberare la Sicilia.
Gli strumenti del gioco erano semplici: una mazza di legno di una quarantina di cm. ed un legno più piccolo, circa quindici cm. affilato sulle punte.
Il battitore si sistemava dentro un cerchio di circa un metro di diametro e di là batteva cu mazzaroccu sul legno più piccolo cercando di mandarlo il più lontano possibile dalla “base”: il secondo giocatore che giocava da esterno aveva due possibilità: o prendere al volo il legno lanciato dal battitore, e questo gli consentiva di conquistare la base, oppure lo prendeva nel punto in cui era caduto e cercava di farlo entrare, lanciando a sua volta, dentro la base, difesa sempre dal primo giocatore.
Se questa operazione riusciva conquistava al primo colpo la base; in caso contrario, il "basista" colpendo il legno più corto su una estremità eriprendendolo al volo doveva cercare di allontanarlo il più possibile dalla "base", si contava con il “mazzaroccu” la distanza che continuava a separare il legno più piccolo dalla base.
E via via continuava la marcia di avvicinamento.
Ecco, ci piacerebbe, che qualcuno degli insegnanti, nostri amici e coetanei, facessero una ricerca più sistematica su queste espressioni della fantasie e della creatività dei ragazzini di un tempo,e ne facessero oggetto di una ricerca corredata anche da immagini.
Oggi è ancora possibile trovare i testimoni di quegli anni, ma tra qualche decennio tutto resterà sepolto dal tempo, e dalle playstation.

La foto di copertina è di Salvatore Pipia

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