'U Pupu ri Palaunìa" - di Germana Favognano I Parte

'U Pupu ri Palaunìa" - di Germana Favognano I Parte

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Lì da dove stava lui, il panorama faceva proprio schifo
. Vedeva macchine, motorini, l’insegna di un vecchio panificio senza più la lettera effe e le ringhiere scrostate dei balconi di brutte case costruite tutte attorno alla sua villa.

Lui si ricordava ancora dei tempi passati, di quando i suoi occhi di tufo si aprivano ogni mattino su alberi carichi di frutti gialli e pesanti e siepi di gelsomini e fichi d’india colorati. Si pentiva adesso di averlo trovato noioso, quello spettacolo superbo. Non si sarebbe mai aspettato di doverlo rimpiangere, ma a sua discolpa si diceva che un giardino, per quanto magnifico, non puoi stare a guardarlo secoli senza che ti dia ai nervi.

Sempre meglio di tutta quella bruttezza che lo circondava adesso, però. Tutti quelli attorno a lui erano d’accordo, neanche loro erano contenti della piccolissima parte di mondo sulla quale doveva cadere il loro sguardo per chissà quanto tempo ancora, un tempo incalcolabile, il tempo che ci avrebbero messo la pioggia e lo scirocco a trasformare in polvere ed aria il tufo morbido di cui erano fatti. Lui non poteva neanche ruotare la testa, solo fissare la strada sotto il muro di cinta su cui lo avevano appiccicato secoli prima e attendere, osservando avido ogni cambiamento.

Prima le cose andavano piano. Gli era parso che ci fossero voluti cento anni per passare dal giardino alla strada, di meno dalla strada all’asfalto, dal carretto alle automobili, da un’automobile a mille altre tutte sempre diverse e sempre nuove ma con la stessa fretta e lo stesso odore nero. A lui sembravano comunque tutte uguali, proprio come le persone: cambiavano i loro abiti, gli oggetti che amavano trascinarsi dietro: parrucche, crinoline, sete, cappelli, velette, tacchi alti, ventagli, spadini, walkman, telefonini, ma loro, le persone, restavano uguali, mosse dalle stesse poche idee e dalle stesse poche elementari passioni. Lui le sentiva discutere, le vedeva passare sotto il muro di cinta e da secoli ne subiva gli umori.

Il primo era stato l’artigiano che lo aveva pazientemente tratto dalla pietra, liberandolo da un sonno di cui non aveva più memoria. Le sue mani erano calde e abili ed era stato l’unico, in tutto quel tempo, a dirgli che era bello, anzi no, ancora di più: “ Sei magnifico” gli aveva sussurrato, e lui per un po’ ci aveva pure creduto.

Magnifico e degno del Principe Gravina Alliata a cui era venuta la brillante idea di disporre lungo il muro di cinta della sua bella villa creature grottesche e mostruose, a simboleggiare chissà quale imperscrutabile visione. Così lui e i suoi compagni si erano ritrovati brutti, deformi e spaventosi per volere di un padre maligno, per scopi che nessuno di loro aveva mai compreso. Se lo ricordava, il Principe, che se ne andava solo solo a spasso per il giardino, con un’aria innocente, a bearsi di quelle figure tristi che molti chiamavano pupi ma che, per come li si volesse chiamare, restavano mostri.
“Non sono affatto magnifico” si disse il pupo un giorno, dopo aver visto quanto potevano essere belle le forme e i sorrisi della gente, specie delle dame che scendevano dalle carrozze nei loro abiti sontuosi, attirate dai balli e dalle feste. Le amava, quelle dame, e amava i loro bimbi e persino i cagnolini lucidi e ben educati che a volte portavano con loro. Le amava perché erano belle, così diverse da lui e dalle altre creature della sua specie. Come avrebbe voluto che lo guardassero una volta, anche una volta soltanto, senza quelle smorfie di disgusto o quelle risatine di scherno che ferivano a morte il suo cuore di pietra.

Lui era uno dei più brutti. Lo aveva sentito dire ai turisti tante di quelle volte che la cosa alla fine lo aveva quasi reso orgoglioso. Di gobbe ne aveva tre, e una cresta di rettile su ognuna e una faccia orrida dal naso a becco e dagli occhi bovini e piedi piccolissimi e un cappuccio ridicolo, a punta, sulla testa abnorme.
“Dio, che brutto quello là” gracchiavano i turisti nelle lingue impossibili che ormai aveva imparato, anche se a capirli sarebbe bastato il sorriso cattivo di quando lo fotografavano. Se avesse potuto, si sarebbe nascosto, o avrebbe celato sotto il cappuccio quel suo volto orrendo che, nonostante tutto, sorrideva. Si, lui sorrideva, la sua bocca aveva un dolce sorriso che pochi notavano.

Avrebbe voluto nascondersi tutto sotto quel ridicolo cappuccio e lasciare lì fuori solo il suo sorriso, così lo avrebbero notato: “ecco, guardate, sorride, uno di loro sorride, che bello, è magnifico” avrebbero detto i turisti, e la sua gioia sarebbe stata immensa. Magari lo avrebbero messo su una delle cartoline che si vendevano in biglietteria, come era toccato alla donna drago e all’uomo con due teste.
Per fortuna c’erano gli altri, i suoi sessantuno compagni, ognuno con gli occhi su una porzione di mondo e con la voglia di raccontare quello che vi accadeva. Da loro, che al calar della notte si passavano parola bisbigliando, aveva saputo delle visite di artisti e di poeti, della morte del Principe, dell’arrivo di nuovi padroni, della rovina del giardino e del crescere della bruttezza che ormai assediava la villa da ogni parte.

Anche i Guardiani del cancello d’ingresso si lamentavano che peggio di così non poteva andare, che l’aria puzzava e le macchine strombazzavano di continuo e nessuno, neanche i bambini, aveva più paura o per lo meno rispetto del loro sguardo feroce.
Era la fine, il pupo lo sentiva: era valsa la pena andare avanti per sperare nelle curve di una bella dama o nello sbocciare della zagara, ma adesso che a circondarlo restavano solo cassonetti troppo pieni e panni stesi e la voce della televisione dalle finestre aperte, adesso stava per arrivare la fine. Il tufo morbido di cui era fatto si sgretolava piano, lo scirocco lo soffiava via da lui rubandogli ogni giorno un po’ di vita e il sole rapace beveva via il colore una volta uniforme del suo corpo mostruoso. I suoi compagni non stavano meglio.

Al calar della notte lo raggiungevano i lamenti e i pianti: “Abbiamo fatto del nostro meglio per resistere, fissi qui sul muro di Palagonia per tutto questo tempo, e ci abbandonano così” gridava il pupo con la testa d’asino.
“Manco terremoti e temporali e guerre ci hanno potuto con noi, e ora ci perdiamo in polvere e nuddu si nn’adduna” gli faceva eco la donna col corpo di drago.
“Non facciamo scantare più a nessuno, ridotti come siamo” tuonavano i due Guardiani dell’ingresso, ormai un po’ fuori di testa da quando gli era giunta voce che persino il Gigante dell’ arco del Padreterno era ormai ridotto a una massa informe e senza faccia. Eppure, i visitatori continuavano ad arrivare coi pullman e a pagare il biglietto per poterli vedere, e i nuovi padroni della villa a stendere il bucato in quella che era stata la magnifica corte del Principe Gravina Alliata e gli sposi a festeggiare le nozze nel salone degli specchi, tutti incuranti della loro agonia.



CONTINUA...........




In questa foto l'autrice del racconto, Germana Favognano

Germana Favognano è nata a Palermo nel 1971. Ha collaborato sia in Italia che all’estero con organizzazioni attive nella promozione dei diritti umani. Vive al momento tra Tübingen (Germania),dove insegna, e la Sicilia. Un suo racconto ha vinto il primo premio assoluto del concorso Colonna d’Eroma, a Santa Flavia, nel luglio del 2008. È anche autrice di un Manuale di sopravvivenza per Italiani in Germania (www. lulu.com).
Germana Fabiano è il nome con cui ha firmato un suo romanzo "BALARM "di oltre 300 pagine che sta avendo interessanti riscontri sia sul web che tra i lettori della carta stampata.
E' stata infatti avviata la terza ristampa. Nelle prossime settimane recensiremo nella pagina della cultura questo lavoro di Germana Favognano.