Monte Catalfano - di Francesco Speciale

Monte Catalfano - di Francesco Speciale

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Nei miei ricordi di bambino Monte Catalfano era solo una grande e alta muraglia rocciosa aspra arida e arsa dal Sole, inaccessibile e lontana. Sapevo che sotto Catalfano c’era la campagna della nonna, dei miei zii e di mia madre e tutte le volte che mi ci portavano speravo che qualcuno dei miei zii mi conducesse a vedere da vicino questa montagna; cosa ci fosse dietro quella lunga e aspra muraglia di pietra, che vedevo estendersi dal mare prolungandosi verso il paese terminando bruscamente la dove c’era una grande cava di pietra, restava avvolto nel mistero.

Di Monte Catalfano a quei tempi sapevo ben poche cose sentite dagli adulti: che lì durante la guerra c’era una postazione di soldati tedeschi che ci salivano a piedi, raramente su camion; lassù c’era “u Chianu ri Mastru Aspanu”, un terreno dove m’ero convinto che ci fosse proprio Mastru Aspanu che ci coltivasse “u pumaruoru ru siccagnu” e “a racina”; a Monte Catalfano ci andavano a lavorare “quelli della forestale”, ovvero gli stagionali impiegati ai lavori di rimboschimento, ciascuno per almeno centocinque giornate lavorative.

Vedevo Catalfano dalla terrazza di mia nonna e restavo affascinato dalla migrazione giornaliera dei “ciàvuli/ciàula” che a centinaia in un unico stormo schiamazzante si dirigevano da Monte Catalfano "nnì Ciancaiddu”, ovvero Monte Giancaldo, il basso e aspro rilievo che caratterizzava una volta nelle cartoline di saluti in fin dei conti l’aspetto panoramico del grosso paese di Bagheria. (A proposito dei ciavuli, ricordo ancora una imprecazione rivolta a chi discuteva animosamente con altri, che a loro volta per imporre le loro ragioni cercavano di soverchiare le voci altrui: «miii, comu fanno! comu i ciavuli fannu! »).

I “ciàvuli/ciàula” però volavano pure via dai loro rifuggi, nascosti sulla parete tra gli anfratti di Monte Catalfano, quando si udiva il suono di un corno, una trombetta dall’allarme, che avvisava dell’imminente “sparo” delle mine nella cava di pietrame per ricavarne “u rapiddu”, il pietrisco.

altAppena udivo l’allarme seguito dallo schiamazzo dei “ciàvuli”, giusto il tempo di dirigere lo sguardo verso la montagna, vedevo spuntare dalla cava una serie di nuvolette fatte di una densa polvere grigiastra, e subito dopo quasi istantaneamente udire le esplosioni delle mine.

Dei “ciàvuli/ciàula” oggi, o almeno dei loro grossi stormi, non c’è più alcuna traccia, spariti dal panorama nonostante che la cava di pietrisco abbia cessato da alcuni decenni l’attività; di certo fino ai primi degli anni Sessanta i ciàvuli erano una presenza legata a Monte Catalfano e al suo dirimpettaio Monte Giancaldo. (i “ciàvuli/ciàula” ovviamente sono uccelli, uccelli appartenenti alla famiglia dei corvi, di solito intesi in lingua nazionale come cornacchie e/o taccole, in questo caso si tratta(va) di taccole).

Non ci salii mai a Monte Catalfano in quei lontani anni, però non mi sfuggì che anno dopo anno la montagna veniva come rosicchiata, mostrando da lontano ampie parti esposte alla vista di colore grigio chiaro quasi bianco sporco, in netto contrasto col il grigiore intenso della natura geologica delle sue rocce calcaree.

Non ci salii nemmeno quando, ormai più grande, da studente in geologia rivolsi le mie attenzioni ed interessi verso altre montagne. Su Monte Catalfano però finalmente ci salii e lo percorsi per la prima volta sui primi degli anni Novanta del secolo e del millennio trascorsi, quando scopersi la passione di andare per sentieri e piste montane in bicicletta, in mountain bike insomma.

Ma fu solo quando “scesi dai pedali” che scoprii, durante le escursioni esplorative, le bellezze nascoste di Monte Catalfano; delle quali però, a dire il vero, ne ero già a conoscenza per averne sentito parlare a più riprese negli anni precedenti. Oggi, Monte Catalfano sarebbe, ma in parte a dire il vero già lo è, un luogo interamente delizioso se non fosse per le pessime abitudini dei “gitanti” che ci salgono per andarci a trascorrere del tempo in tutta spensieratezza, abbandonando alla fine, prima di tornare ciascuno a casa propria, stanchi ma soddisfatti e contenti, quanto ormai non serve più; insomma abbandonando i soliti rifiuti di varia natura legati a quanto si mangia si beve e si consuma giornalmente.

altMa, da quel che ho visto, meglio da quel che ho osservato gironzolando per sentieri e piste nascoste tra la vegetazione, Monte Catalfano sembra possedere, ancora, sue proprie risorse che lo aiutano a sopravvivere, sapendo reagire abbastanza bene alle “offese” causate da certi incendi ricorrenti, rigorosamente dolosi e/o colposi; tuttavia però, non sa riuscire da solo, altrettanto bene, a reagire alle offese causate dalle male abitudini di chi ci va a passare il tempo.

Viste con i miei occhi e immortalate in fotografia da tanti appassionti fotografi naturalisti, a Monte Catalfano, nonostante tutto, le orchidee selvatiche, belle, belle assai da vedere ed emozionanti da scoprire nel manto erboso, si ostinano a spuntare puntualmente ogni anno; e insieme alle orchidee altre essenze vegetali degne di essere ammirate e soprattutto rispettate.

Insomma Monte Catalfano oggi è un luogo delizioso, un’oasi di tranquillità che meriterebbe di essere protetto da tutti; un’oasi di serenità a “due passi” dal paese, che probabilmente è il più caotico e chiassoso, puro eufemismo, di tutta la regione.

Francesco Speciale

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