Cultura

Continuano le varie fasi della performance del chiodo di Richichi: ecco come ci racconta gli ultimi passaggi lo stesso autore.

'Alla mostra di Palazzo Costantino ho esposto un chiodo e chiesto alla gente di pagare per vedere il mio lavoro. 172 persone hanno scelto di pagare all’interno di una mostra con ingresso gratuito.

Ma l’evento eclatante si è verificato quando due poliziotti, in divisa, in visita per un’ispezione hanno voluto pagare 1 euro per vedere l’opera di Mr Richichi quando poco più di un mese fa la stessa polizia mi aveva denunciato.

Il curatore mi ha concesso un’intera stanza con molteplici ingressi, senza porte, in cui realizzare il mio lavoro. Ho chiuso tutti gli ingressi con un telo nero eccetto uno che è stato trasformato in un’entrata con una tenda bianca. Davanti l’ingresso era presente un’ hostess che informava i visitatori della possibilità di visionare l’installazione e delle modalità di ingresso.

1 euro per ogni ingresso nella “Mr Richichi’s room”. Tutti hanno dovuto pagare per entrare eccetto Mr Richichi.

L’installazione è consistita nella chiusura delle stanza attraverso i teli, nella collocazione di una colonna stile romano in posizione centrale a ¾ della stanza, nel posizionamento di una teca in plexiglass contenente un chiodo in piedi al centro e nel montaggio di una luce led bianca direzionale sopra la teca. L’installazione ha attribuito carattere di sacralità al chiodo trasformandolo in un idolo, in un feticcio.

L’atto di pagare per entrare è parte integrante dell’opera. Io dico: l’arte è spettacolo e lo spettacolo si paga. Con il mio lavoro recente e la sua capacità di intervenire sui media ho mostrato sfacciatamente che l’arte è spettacolo.'

ma non è finita: Mr Richichi invita adesso ad immaginare che cosa farà con quel denaro, perché anche il denaro avrà una finalità artistica.

La risposta verrà venerdì 2 agosto sempre all'incrocio dei 4 Canti a palazzo Costantino.

 

O ron Pasquaaali, o ron Pasquaaali ! Liiiiavaala! Liiiavaaala!

Il grido attraversava campagne e trazzere e arrivava là dove doveva arrivare, e dove ron Pasquali, u "vardianu i l'acqua", attendeva il segnale convenuto: era u tempu r'arruspigghiata.

Allora si chiudeva una "saracina" e se ne apriva un'altra per consentire all'acqua di irrigare un altro fondo, e si calcolava anche il tempo "ra cunnuttata" dell'acqua cioè ca "nno turciunato" continuava a scorrere dal punto nodale della distribuzione.

D'estate, di notte, le campagne, sonnolente di giorno sotto il caldo canicolare, era come se si risvegliassero: le luci dei "fanali" lampeggiavano tra e sotto gli alberi, disegnando forme stranissime, lungo le trazzere falene altalenanti via via si avvicinavano dando forme chiare alle ombre; il rumore discreto e cheto dell'acqua che scorreva 'nne cunnutti', ‘nna saia' o ‘nne catusi", o rumoroso e tumultuoso quando arrivava nelle vasche, 'nnè gibbiuni ru sufuni", ti dava l'idea di qualcosa di vivo, che si risvegliava.

Alla luce dei fanali  con il sistema irriguo arabo detto per sommersione, ancora oggi in uso nelle oasi, tra cunnutti, rapiri e chiuiri prisi, tra conchi e  vattali

A "casuzza i cani" che era il luogo di concentramento ‘ri vardiani r'acqua o di chi aspettava il proprio turno "p'abbivirare" si faceva l'alba tra una sigaretta e l'altra.

ERA  U  TIEMPU  R'ARRUSPIGGHIATA

Erano centinaia per ogni notte e per oltre cinquanta-sessanta notti dai primi di luglio a tutto agosto nelle varie contrade le persone coinvolte, in questo balletto notturno, tra contadini "c' abbiviravanu", "chiddi c' avevanu a pigghiari l'acqua", "abbiviraturi e vardiani r'acqua".

E nelle lunghe, lunghissime ore di attesa si parlava con quel parlare lento, di chi ha tempo da perdere e quietamente affabula e racconta, e nel silenzio della notte il brusio delle voci si diffondeva ne jardini.

Arruspigghiata era il momento topico della stagione agrumicola.Lungo tutto il mese di luglio migliaia e migliaia di ettari di agrumeti dovevano ricevere quell'acqua ‘ra Chiana', che era quasi meglio dell'acqua benedetta.

Dall'avere azzeccato il momento e la quantita di acqua da dare alle varie piante, dipendeva il raccolto dell'anno successivo ‘ri "bastarduna", l'oro verde di Bagheria e del territorio degli anni cinquanta e sessanta.

Giorno e ora ( di massima) r'arruspigghiata, veniva contrattato al Consorzio Idro agricolo direttamente col "vardianu i l'acqua"; poi, non esistendo telefonini, l'arrivo dell'acqua si aspettava direttamente in campagna.

U vardianu si spostava in bicicletta o cu motom per comunicare orari, dare o spostare appuntamenti

E talvolta si aspettava non solo ore ma giorni e notti, andando a casa solo per un rapido pasto, o addirittura consumando in campagna 'anticchia i pani e cumpanaggiu'.

Naturalmente dovendo tutti gli agrumeti essere irrigati in un periodo di tempo ristretto, si creavano favoritismi e la distribuzione dell'acqua conferiva al Consorzio un potere enorme, che veniva ovviamente gestito dai mafiosi del tempo tramite i vardiani i l'acqua.

LA  SCOPERTA  DEI  VERDELLI

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La scoperta che fosse possibile la produzione dei "verdelli" sarà stata certamente frutto del caso e dello spirito di osservazione di qualcuno molto antico, anche se saranno qualche centinaio i bagheresi che vi diranno che è stato il loro nonno o bisnonno a scoprirlo.

La produzione "naturale" "stagionale"  del limone è quella che si chiama "a robba nova" o" "robba i tiempu", quel frutto di colore giallo limone appunto, la cui fioritura avveniva tra marzo e aprile e corrispondeva al risveglio naturale della pianta, e la cui raccolta del frutto avveniva dopo poco più o poco meno di un anno; alla "robba nova" si aggiunse la produzione "forzata", "bastarda", appunto dei verdelli, ottenuta facendo "soffrire" ( "a patuta", la "forzatura") la pianta nel primo periodo dell'estate, diciamo giugno, e irrigando poi quando la pianta aveva "patutu" abbastanza, aveva cioè foglie mosce e accartocciate.

L'acqua funzionava come una sferzata di energia , che provocava una seconda fioritura, la cui produzione sarebbe stata poi raccolta nei mesi di giugno-luglio dell'anno successivo, in un periodo in cui, d'estate, di limoni c'era più richiesta e quasi nessuna produzione negli altri paesi.

L'acqua però doveva essere data, come dicevamo, al momento e nella quantità giusta, non troppa, dosandola pianta per pianta, per evitare che l'albero partissi "a novu", che cioè germogliasse solo in fogliame senza produrre la tipica 'zàira', i cui bocciolini piccoli bianchi, rosa pallido, viola, e quasi invisibili spuntavano già dopo un paio di settimane r'arrsuspigghiata.

"Spararu" ( o anche "partiaru") l'albuli": (tradotto: sono spuntati i nuovi germogli): era la frase che rendeva più sereno il futuro di qualche migliaio di famiglie bagheresi e del circondario.
E voleva dire tanto.

C'era da sperare in qualche capo di abbigliamento nuovo per la prole spesso numerosa, alla carne o alla salsiccia, che la domenica a tavola non sarebbe mancata, a qualche cannolo o cassata per gli eventi festivi importanti, alle spese per i libri, al corredo per una figlia che si sposava, a potere far fronte ad una spesa straordinaria qualunque essa fosse.
Tale sistema di coltura era un unicum pressocchè irripetibile, perché compatibile solo con terreni "sabbiosi", ricchi di silice, che drenavano cioè rapidamente l'acqua nel terreno.

Tant'è che il tentativo che fu fatto a cavallo degli anni '60 di trasferire la coltura del limone verso la zona collinare dell'interno di Bagheria a Bellacera, l' Accia, ecc.. dove c'erano terreni "critusi"(cioè argillosi) che trattenevano l'acqua in superficie fu disastroso e fallimentare. 

A  CUGGHIUTA   RI   LUMIUNA

E poi 'a cugghiuta ri lumiuna' che vedeva coinvolta l'intera famiglia, donne e bambini compresi, perchè avveniva in estate a scuole chiuse.

La prima raccomandazione che si dava ai bambini, che davano una mano a raccogliere i verdelli era una e perentoria:"un fari spiritiari i lumiuna"; non provocare cioè traumi sulla superficie perché il limone doveva essere lavorato, doveva viaggiare giorni e giorni per arrivare ai mercati del Nord Italia o del centro Europa per andare poi sulle tavole dei consumatori nel giro di una decina di giorni.

I "bastarduna", (che ad onta del loro nome erano molto delicati), venivano raccolti con cura e quasi religiosamente posati rintra i "panara", cesti fatti di canna intrecciata e giunco con manico imbottiti di paglia e tela di sacco, che potevano mediamente contenere circa sette chili di limoni.

Dai "panari" il cui trasporto all'interno del fondo per brevi tragitti veniva affidato ai più piccoli, i limoni poi passavano "nne cartidduna", cesti più grossi, anche questi di canna più robusta e intrecciata, che arrivavano a contenere sino a quaranta chili di prodotto.

I cartidduna venivano poi a spalla, superando zalfini e sipala e distanze anche di qualche centinaio di metri, portati in un punto del giardino dove in genere c'era una vecchia casa agricola, o comunque un piccolo spazio dove venivano svuotati non prima di aver sistemato per terra però, o dell'erba o dei teli per non farli "spiritiare".

Venivano poi i "lumiunara" con i carretti dai magazzini che "scartavano", cioè selezionavano le varie qualità, le migliori li 'ncartavanu' e poi "ncasciavano i limiuni", operazioni che nei periodi di punta per guadagnare tempo venivano fatte direttamente in campagna.

altCOMMERCIALIZZAZIONE

Il prezzo che veniva pagato per ogni chilo di limone era frutto di una contrattazione lunga e talora laboriosa: "u limiunaru" anche se conosceva la "partita"andava prima a valutare ad occhio la qualità del prodotto, e poi proponeva un prezzo: si mercanteggiava e alla fine una semplice stretta di mano valeva più di un contratto di fronte al notaio.

Non furono pochi i "limiunara" che fallirono per avere onorato la loro parola e quella stretta di mano.

Talvolta bastava un rapido mutamento delle condizioni metereologiche verso il maltempo al nord Italia o in Europa per far crollare di botto il prezzo dei limoni, come pure periodi di afa e di calura prolungata ne determinavano una tumultuosa impennata del prezzo..

I "lumiunara", con incredibile abilità e velocità, procedevano alla separazione del prodotto buono dallo "scarto" ( malafuarma, ammalignatu, minutu ecc.. che veniva pagata ad un prezzo più basso), facendo passare il limone quando c'erano dubbi se la misura fosse troppo piccola, attraverso un calibro circolare di rame "i ravuogghi", che servivano anche a separare le varie pezzatura di agrumi.

Generalmente il calibro più piccolo era il 16: sotto il 16 ( diametro massimo del frutto inferiore a 16 cm.cioè) il limone veniva considerato troppo piccolo per essere immesso sul mercato, mentre il 25 veniva considerato il calibro massimo commerciabile.

Ogni limone veniva quindi avvolto nei fogli di "carta palina", che generalmente recava il logo dell'azienda che lo commercializzava, e successivamente 'ncasciati'

Poi si disponevano "nne casci", contenitori a forma di parallelepipedo di legno che contenevano una trentina di chili di limoni, che venivano poi ricoperte di carta e chiuse con dei coperchi di legno sottile su cui si fissavano listarelle di legno  piantate con chiodini per fissarle bene, quindi pesati con la "basculla" o con il più antico sistema della "statìa"( la stadera).

Per quanto riguardava la tara, vale a dire il peso delle "casce" spesso si conveniva su un peso standard.

In qualche caso però il produttore per non avere problemi al momento della "scartata" che era sempre fonte discussione e di liti, preferiva vendere (naturalmente ad un prezzo un po' più basso) "a ringu e ca tara pisata", cioè tutto il prodotto ri paru e pesando la tara, proprio per evitare contestazioni.

A quel punto i carretti portavano le "casce" confezionate alla stazione ferroviaria, dove i magazzini più grossi avevano un prolungamento di rotaia dove caricavano i loro vagoni, e il limone era pronto per prendere il treno. Talvolta si usavano per il trasporto anche le navi.

Un viaggio che al tempo durava una decina di giorni. Più o meno il tempo che si impiegherebbe oggi.

Angelo  Gargano

 

L'articolo era stato già pubblicato su bagherianews nel giugno del 2010

 

Anche quest’anno, in occasione del Festino di Santa Rosalia, Patrona della città di Palermo, i settecenteschi Palazzo Costantino e Palazzo Di Napoli ai Quattro Canti, aprono le porte al pubblico per ospitare due grandi collettive di arte contemporanea dedicate alla Santuzza.

La mostra “La Guarigione”, ideata e curata del mecenate Roberto Bilotti Ruggi d'Aragona con il coordinamento generale di Viviana Bilotti Ruggi d’Aragona e Serena Ribaudo, è alla sua seconda edizione e verrà ospitata a palazzo Costantino.

In questo ambito trovano spazio e accoglienza opere degli artisti bagheresi Arrigo Musti, Elisa Martorana, Rosario Tornese, Carmelo Maria Carollo, Max Serradifalco e Roberto Prestigiacomo.

A Palazzo Di Napoli invece nella rassegna dal titolo 'Macerie' esporrà anche Gaspare Richichi, salito alla ribalta delle cronache per il singolare episodio della foto del chiodo nell'aereo

"LA GUARIGIONE” – Palazzo Costantino, Via Maqueda 217 - Inaugurazione Domenica 14 luglio 2013 ore 21.30 (su invito) Apertura al pubblico Lunedì 15 luglio 2013 ore 10.00-20.00  ingresso gratuito

 

Nella foto di copertina una vignetta di Domenica Rotino sulla 'performance artistica' di Gaspare Richichi

 

 

 

Vi proponiamo una parte della 'laudatio' pronunciata dal prof. Francesco Lo Piparo, ordinario di filosofia del linguaggio preso l'Università di Palermo, in occasione del conferimento della laurea 'honoris causa' in Scienze filosofiche al regista e nostro concittadino, Giuseppe Tornatore.

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Perchè al regista Giuseppe Tornatore viene data una laurea in Scienze filosofiche e non in una disciplina artistica o in antropologia o in storia? È una domanda che molti si saranno posti. Eppure due film del regista bagherese sono di impianto chiaramente filosofico: La migliore offerta (2013), Una pura formalità (1993). Altri, come Nuovo Cinema paradiso (1988), L’uomo delle stelle (1995), Baarìa (2009), se non li leggete come racconti filosofici, voglio dire come metafore di domande filosofiche, perdete molto.

 Prendiamo il film più recente e giustamente pluripremiato, La migliore offerta. Apparentemente sembra una sorta di giallo in cui alla fine si scopre che dei giovani hanno raggirato un vecchio signore per derubarlo dell’enorme patrimonio artistico accumulato negli anni svolgendo la professione di battitore d’asta. Se fosse così, sarebbe decisamente un brutto film. Provato a leggerlo come una riflessione sul tempo che scandisce il succedersi delle generazioni. Vi troverete in presenza di un capolavoro.

Vediamo.

alt Il vecchio battitore d’asta si chiama Virgil Oldman. Nome trasparente (“Vecchiouomo”) che il regista butta lì per fornire la pista, non realistica, da seguire. Claire è la giovane donna con cui Oldman viene in maniera tortuosa in contatto. Entrambi sono metafore di due differenti generazioni. Entrambe sono murate nelle loro fobie e nevrosi. Hanno paura del mondo e se ne difendono innalzando mura divisorie tra sé e gli altri. Oldman riesce ad avere contatto col mondo solo tramite la barriera difensiva dei guanti, la giovane Claire si barrica dentro una villa e comunica col mondo frapponendo tra sé e il mondo esterno il muro di una parete.

Tra il vecchio e la giovane alla fine nasce una relazione erotico-sentimentale che funziona per entrambi da terapia: Oldman abbandona i guanti, Claire esce dalla villa. Oldman, spinto dalla passione erotico-sentimentale per lui inedita, decide di abbandonare la propria attività e organizza un’asta d’addio a Londra. Di ritorno da Londra trova la casa svuotata da ciò che dava un senso alla sua esistenza: l’enorme patrimonio culturale accumulato in molti anni di lavoro.

Il film a mio parere racconta il furto fisiologico che le nuove generazioni compiono del patrimonio accumulato da chi li ha preceduti nel tempo. Oldman ne soffre, come ne soffrono tutti i vecchi, ma è quello che accade e dovrebbe sempre accadere: i giovani rubano, o dovrebbero sempre rubare, il patrimonio di cultura e di esperienza accumulato dagli Oldmen.

Il furto è fisiologico, non patologico. Il rapporto tra le generazioni diventa patologico quando il furto non c’è. E il furto non accade o perché i vecchi, gli Oldmen, non hanno accumulato nulla che sia degno di essere trasmesso ai giovani (non c’è nulla da rubare) o perché i giovani non sono abbastanza bravi da sapere compiere il furto.

Il furto ha sempre svolto un ruolo fondamentale nella trasmissione del sapere. Nella mitologia greca l’abilità tecnica dell’umanità nasce con un furto: Prometeo ruba il fuoco e la tecnica agli dei per donarli agli uomini. A partire da questo momento l’uomo acquisisce le caratteristiche antropocognitive attuali.

Di un tempo scandito da un furto di cultura parla Nuovo Cinema Paradiso. Alfredo, il vecchio proiezionista, non vuole trasmettere il suo sapere tecnico al piccolo Totò: «Tu non devi fare questo mestiere», gli ripete nella prima parte del film. Totò lo costringerà con l’astuzia a donargli la sua esperienza e la sua cultura: in un esame di licenza elementare passerà al vecchio proiezionista la soluzione di un problema di matematica dopo essersi fatto promettere di assumerlo come allievo nella cabina di proiezione. Sono scene di grande intensità filosofica.

Le trasmissioni culturali – ci sta dicendo Tornatore con quelle immagini – non sono mai regali gratuiti ma conquiste. Totò diventerà grande regista grazie anche a quel furto.
E Baarìa? Se lo leggete come un film realistico perdete molto e non capireste perché sia piaciuto tanto in giro per il mondo, a spettatori che di Bagheria e dell’Italia sanno poco o nulla.

Qui il tempo della trasmissione culturale non è raccontato secondo il paradigma traumatico del furto ma secondo il paradigma del dono.

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In Baarìa è raccontata l’epopea di quasi un secolo di storia attraverso tre generazioni che crescono l’una sull’altra, senza grandi conflitti: il vecchio Cicco Terranuova, vaccaro, dona il proprio sapere e la propria saggezza al figlio Peppino che grazie a quel dono da vaccaro diventerà dirigente politico; Peppino, a sua volta, dona il suo sapere e la sua saggezza al figlio Pietro che grazie a quel dono diventerà grande regista insignito dell’Oscar. È un tempo epico che si svolge con un andamento a spirale. È anche una visione ottimistica della storia del Novecento.

I vecchi donano il senso della loro esistenza ai figli, i figli crescono grazie al dono ricevuto dai padri. In Baarìa questa filosofia del tempo è rappresentata in scene che rimarranno nella storia del cinema filosofico: la corsa onirica da fermo di Peppino verso il figlio che parte con la valigia piena dei doni culturali del padre e del nonno; i due bambini, il padre Peppino e il figlio Pietro, che corrono l’uno nella direzione dell’altro.

È una scena quest’ultima satura di emozioni e di filosofia. Lo spettatore percepisce che il piccolo Peppino, vaccaro e figlio di vaccaro, e il figlio di Peppino, futuro premio Oscar, sono la stessa persona. Un padre non potrebbe avere un riconoscimento più intenso. Quando l’ho vista, la scena mi emozionò come figlio e come padre ma anche come persona abituata a riflettere per mestiere sulla questione del tempo.

Ma che cosa è il tempo? Aristotele prima, Einstein dopo, ci hanno spiegato che tempo e misurazione del tempo sono inseparabili. Si vive nel tempo solo misurandolo. Nei film a cui ho fatto riferimento il tempo delle generazioni che si susseguono ha una direzione in quanto è misurato.

Cosa accade quando le esistenze non riescono a trovare una bussola che dia loro una direzione? La questione è il nucleo tematico di Una pura formalità, il film a maggior densità filosofica di Tornatore. Al settimo minuto del film il regista fa vedere un orologio a pendolo senza lancette e con alcuni numeri cancellati. Il pendolo oscilla, quindi il tempo scorre. Ciò che manca è la misurazione del tempo, ossia ciò che gli dà un senso e una direzione.
Il film leggetelo a partire da questa immagine. Tenete a mente anche le definizioni che Tornatore ha dato del film: «È un film che si svolge nell’aldilà, un giallo in cui l’assassino e l’assassinato sono la stessa persona, un film che si svolge in quel breve spazio di tempo che separa la vita dalla morte». Vi scoprirete molti segreti metafisici.

Prof. Franco Lo Piparo ordinario di Filosofia del linguaggio all'Università di Palermo

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