Bagheria come un’infanzia (20)- di Biagio Napoli

Bagheria come un’infanzia (20)- di Biagio Napoli

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1-Il salotto. La mattina mia madre e mia sorella scopavano e lavavano in terra dappertutto. In salotto no, tanto stava sempre chiuso. Lo aprivano una volta la settimana perché prendesse aria e luce dalla persiana che dava sulla strada.

Allora spolveravano ogni cosa anche i due quadri attaccati alle pareti dove non c’era l’apertura all’esterno o la vetrata che separava il salotto dalla stanza da pranzo. Uno dei quadri era un dipinto religioso su vetro, una sacra famiglia, mentre l’altro raffigurava una strada e un casolare nel verde della campagna e le montagne sullo sfondo. Il mobilio era costituito da un tavolino alto e rotondo di legno sormontato da una lastra di marmo marrone, un’angoliera, due poltroncine e tre divani. Questi erano stati il risultato del lavoro che un ebanista e un tappezziere avevano fatto su un unico lunghissimo divano che la signorina padrona di villa S. Giuliano, non avendo più che farne, aveva dato a noi, sbarazzandosene. Solo dividendolo in tre si potè portare a casa nostra. Il tappezziere usò la stoffa rossa che mia madre e mia sorella avevano scelto e gli avevano portato. Quel salotto, quasi sempre al buio, dove mi era assolutamente proibito entrare, era una camera da ricevere che si apriva quando si aspettavano visite di un certo riguardo o se venivano parenti a farci conoscere le fidanzate o i fidanzati dei figli. Quel mobilio rimase sempre lì; servì, nel tempo, per accogliere i visitatori e per le veglie funebri quando morirono i miei genitori; e quando, ultimamente, è morta anche mia sorella che, sposandosi, era rimasta in quella casa al piano di sopra. Le bare, con i corpi immobili e quei volti cerei, furono ogni volta sistemate al centro di quella stanza con a lato divani e poltrone.

2-Il letto grande.
E invece nella stanza da letto dei miei genitori avevo libero accesso; anzi, se avevo la febbre, mia madre cambiava le lenzuola e mi permetteva di coricarmi nel lettone. Quant’era alto! Sulle tavole, a loro volta sistemate su alti e robusti trispiti di ferro, da un lato e dall’altro e uno sopra l’altro, c’erano infatti due morbidi e spessi materassi. Una volta che ebbi una febbre molto alta, cominciai a delirare; c’era una
grande finestra in quella stanza e una tenda, bianca, con dei ricami. In uno di questi vedevo confetti e volli che mia madre me li prendesse. Preoccupata mandò subito mia sorella a chiamare il dottore. La strada fino
a villa Butera, al Palazzo, dove il dottore aveva lo studio, mia sorella la fece correndo e alla madre, ch’era là portinaia, e riceveva le richieste di visite a domicilio, lasciò il biglietto raccomandandosi che facesse presto.
In quel biglietto aveva comunque scritto che avevo la febbre altissima e che vedevo cose. Intanto mia madre, su una sedia, preparava l’occorrente affinchè il dottore poi si potesse lavare le mani cioè una bacinella smaltata bianca, una saponetta nuova ancora incartata e, sulla spalliera, una tovaglia pulita. A terra una caraffa con l’acqua. Con una spugna strizzata mi lavò il petto e le spalle.

3-
Vaju nnall’uojtu
u cavigghiuni u lassu
e u pijtusu mu puojtu.
Chi cos’è?

4-Terzo ricordo di mio padre contadino.
Luglio era tempo di risvegliata e l’acqua continuava a venire giorno e notte. Mio padre avrebbe voluto che l’estate non giungesse mai, perché era tempo di spese e ci voleva un pozzo senza fondo per attingervi tutti
i soldi necessari e, pure, perché era tempo di fatica e la sera, tornando a casa, gli veniva voglia di gettarsi in un angolo, come una cosa vecchia e scordata, e non levarsi più. Da giovane, mio padre faceva invece le nottate. A volte, abbeverava pure senza gli stivali, con le gambe e i piedi bianchi, nudi. Poi la sua parte di lavoro cominciò a farla di giorno. Anche mio zio Pietro faceva il suo lavoro di giorno: abbeveravano una
filiera ciascuno e avevano il tempo di riposarsi. Di notte ci stavano Brasi e un bracciante. L’anno in cui morì lo zio Giuseppe, abbeverarono i limoni con l’acqua salata. La macchina, quella volta, sembrava avesse pescato direttamente nel mare. Pensarono che sarebbe stata un’ottima cosa scavare un pozzo e chiamarono uno che scopriva i posti dove c’era acqua. L’uomo aveva un otre al posto della pancia e aveva una faccina e delle gambette piccole. Girò tutto il giardino, e mentre camminava, l’otre si spostava da un lato e dall’altro. La bacchetta che teneva in mano vibrò in due posti: in mezzo ai manderini e dove già c’era un antico pozzo asciutto. Con la sua vocina, l’uomo disse che scavando il pozzo ancora più in profondità, acqua ne trovavano per loro e pure per venderla nelle campagne vicine. Allora andarono a parlare con la padrona. Disse che se c’erano da fare spese, pazienza, purchè l’acqua si trovasse! Ci mandò un prete a benedire il posto e comprò una mattonella su cui c’era dipinto San Francesco, una colomba, un albero, l’acqua che sgorgava da una roccia e la scritta: Laudato si mi signore per nostra sora acqua. Un muratore, con il cemento, la sistemò nel muro vicino al pozzo. E cominciarono i lavori per liberare il fondo del pozzo dai detriti che vi si erano accumulati. Ma qui si fermarono. Si seppe che la padrona aveva parlato con quello che si occupava di scavare il pozzo e che l’uomo le aveva detto che la faccenda era come un mellone chiuso; poteva essere maturo o bianco, l’acqua c’era e poteva anche non esserci. Se mio padre ci pensava, l’uomo che si chiamava mastro Francesco, lui lo chiamava mastro stronzo. La mattonella lucida con il santo, nel muro vicino al pozzo però rimase là. E l’acqua ai limoni gliela davano quando veniva dalla Piana e se ne veniva poca aspettavano e pregavano che piovesse. Una volta che piovve, Brasi, mio zio Pietro e mio padre li trovai dentro il casotto. Brasi era intento ad accendere un fuoco in un secchio, sotto la tettoia. Mio zio intrecciava un paniere e mio padre se ne stava seduto sopra un cassone da limoni, con il bavero della giacca rialzato e con le mani nelle tasche. Mio padre, che aveva paura dei tuoni, disse che bisognava che piovesse tutto il pomeriggio e anche la notte, purchè piovesse senza tuoni. Mio zio al paniere doveva soltanto farci il manico. Disse che molta gente faceva i panieri, ma poi, giunta al manico, non sapeva più come andare avanti. Invece era la cosa più semplice. Brasi portò dentro il casotto il secchio pieno di brace e lo mise nel mezzo. Si trovò anche lui un posto attorno al secchio. Fuori il vento scuoteva i rami dei limoni e l’acqua formava delle piccole pozzanghere nella terra rossa. Mio padre si cercò nelle tasche della giacca e ne tirò fuori quattro o cinque attuppatieddri. Li mise sulla brace e dopo un po’ cominciarono a fischiare e a mandar fuori schiuma. Mio padre, con un pezzetto di legno, le rigirava sulla brace. Quando ritenne che fossero cotti, mi disse che potevo farli raffreddare e mangiarli.

5-Tracce.
Mi capita di notare, ed è la prima volta, un pilastro, uno solo, per metà inglobato nei muri d’angolo d’una casa dove la strada si restringe per entrare nell’Atrio del Cavaliere. E’, naturalmente, in tufo, e fa pensare
che, in quel posto, e costituendone parte dell’ingresso, vi fosse una villa. C’era, si, una villa, ma non c’è nessuna targa accanto al pilastro. Si vede che al Comune se ne sono dimenticati mentre, in altri posti, accanto all’unico pilastro rimasto, una targa marrone scuro c’è. Per esempio dove finisce o, se si preferisce, dove inizia via Passo del Carretto, a due passi dalla Certosa. Per esempio quasi a metà del corso Butera, proprio di fronte via Quattrociocchi, dove inizia via Libertà. Che strano però! Tre posti diversi e un solo pilastro. Perché uno risparmiarlo? Perché lasciar tracce? Quel pilastro all’ingresso dell’Atrio del Cavaliere è infatti traccia della villa, scomparsa, del cav. Giuseppe Branciforti e quello di via Passo del Carretto è traccia della villa, diventata convento, quello di Sant’Antonino, del principe di Angiò con i terreni inghiottiti dalle case  e quello di corso Butera è traccia della torre e del girato del marchese Mortillaro, scomparsi. Solo a metà del corso Umberto i due pilastri dell’entrata, allora secondaria, di villa Palagonia sono rimasti là anche se uno è letteralmente fagocitato dai muri di due brutti palazzetti contigui. Dell’altro, di quello libero, già ho parlato dicendo di Carmine e del suo chiosco. Fissato a questo pilastro, ad una altezza tale che non ci si poteva arrivare se non con una scala, c’era un telaio con i manifesti del cinema Capitol. Io i manifesti li andavo a vedere direttamente al cinema ch’era vicino casa mia. Se però passavo da Carmine mi fermavo lo stesso davanti al pilastro e me ne stavo lì, con la faccia in alto, a guardarmeli.

Biagio Napoli

Maggio 2017

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