L'utopia della liberazione dai bisogni con l'impresa dei Mille - di B. Napoli

L'utopia della liberazione dai bisogni con l'impresa dei Mille - di B. Napoli

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Il 22 maggio, a Parco (Altofonte n.d.r.) , Giuseppe Cesare Abba incontra un frate con il quale ha un dialogo che gli lascia “un non so che di turbamento”. ( 1)

Scrive: “Mi son fatto un amico. Ha ventisette anni, ne mostra quaranta: è monaco e si chiama padre Carmelo. …Vorrebbe essere uno di noi, per lanciarsi nell’avventura col suo gran cuore, ma qualcosa lo trattiene dal farlo. …

-Verrei, se sapessi che farete qualche cosa di grande davvero: ma ho parlato con molti dei vostri, e non mi hanno saputo dir altro che volete unire l’Italia.
-Certo; per farne un grande e solo popolo.
-Un solo territorio! In quanto al popolo, solo o diviso, se soffre, soffre; ed io non so che vogliate farlo felice.
-Felice! Il popolo avrà libertà e scuole.
-E nient’altro!-interruppe il frate: -perché la libertà non è pane, e la scuola nemmeno. Queste cose basteranno forse per voi Piemontesi: per noi qui no.
-Dunque che ci vorrebbe per voi?
-Una guerra non contro i Borboni ma degli oppressi contro gli oppressori grandi e piccoli che non sono soltanto a Corte, ma in ogni città, in ogni villa.
-Allora anche contro di voi frati, che avete conventi e terre dovunque sono case e campagne!
-Anche contro di noi; anzi prima che contro d’ogni altro! Ma col vangelo in mano e colla croce. Allora verrei. Così è troppo poco”. ( 2 )

Padre Carmelo è un bell’esempio di rivoluzionario e lo scrittore soldato pare comprenderne le motivazioni. Ma è così?
Passeranno i giorni, ci saranno i fatti di Bronte, non vi parteciperà, G.C. Abba li racconterà per sentito dire e non certo dalla parte dei senza terra.

Dimentica infatti la lezione del religioso e scrive: “ A Bronte divisione di beni, incendi, vendette, orgie da oscurare il sole, e per giunta viva a Garibaldi. …Cose da cavarsi gli occhi per l’orrore! Case incendiate coi padroni dentro; gente sgozzata per le vie; nei seminari i giovanetti trucidati a piè del vecchio Rettore; uno dell’orda è là che lacera coi denti il seno di una fanciulla uccisa. …E i rei sono giudicati da un consiglio di guerra. Sei vanno a morte, fucilati nel dorso con l’avvocato Lombardi, un vecchio di sessant’anni capo della tregenda infame. Tra gli esecutori della sentenza v’erano dei giovani dolci e gentili, medici, artisti in camicia rossa. Che dolore! Bixio assisteva con gli occhi pieni di lacrime”. ( 3 )

Vengono così raccontati fatti raccapriccianti mai accaduti ( con errori: sei fucilati invece di cinque,  avvocato Lombardi invece che Lombardo ) e, soprattutto, passa la versione garibaldina degli avvenimenti che oppone la “tregenda infame” e il suo capo ( ma lo era davvero? ) a un incredibile Bixio piangente e a camicie rosse “dolci e gentili” fucilatori loro malgrado.

Frate Carmelo è figura reale e letteraria. Don Paolo Vitale, sacerdote, è figura letteraria. Compare nel racconto lungo di Leonardo Sciascia "Il quarantotto".

Costruendo il personaggio Sciascia teneva presente la figura del frate incontrato dall’Abba?

Vale la pena leggerne la sua descrizione.

Scrive dunque Leonardo Sciascia: “ Io andavo a scuola dal prete… conservo di don Paolo un buon ricordo…abitava due camerette nude, piccole come celle di convento, a lato della sua parrocchia, la più povera e fuori mano che ci fosse nel paese; appunto a lui l’avevano data in punizione della spregiudicatezza e libertà che mostrava, inviso ai superiori e ai colleghi, in fama di liberale… . Ma liberale veramente non era: l’amore alla libertà gli nasceva dalla sofferenza del popolo, la libertà del popolo era il pane, lottare per poter leggere dei libri e aprire delle scuole gli pareva cosa assurda … .E mi parlava della rivoluzione vera, quella che stavano facendo gli pareva un modo di sostituire l’organista senza cambiare né strumento né musica: e a tirare il mantice dell’organo restavano i poveri”. ( 4 )

Con il padre Carmelo dell’Abba siamo nel 1860 mentre con il sacerdote di Sciascia ci troviamo durante la rivoluzione siciliana del 1848.

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Dalla parte dei poveri ancora nel 1860 è il nobile Enrico Pirajno di Mandralisca, personaggio reale e letterario che Vincenzo Consolo fa protagonista del romanzo "Il sorriso dell’ignoto marinaio".

Ma il Pirajno è fatto d’altra pasta; laddove i due religiosi agiscono per spirito  evangelico l’altro, uomo di scienza, è per spirito illuminista che agisce. Mentre per i primi ai poveri sono  sufficienti terra e pane, all’altro queste cose non bastano.

Sconvolto dai fatti di Alcara li Fusi cui era stato in parte spettatore, sente l’obbligo di scrivere una memoria e una lettera -preambolo, da  inviare al Procuratore Generale della Gran Corte di Messina, Giovanni Interdonato, che dovrà giudicare gli  imputati scansati alla fucilazione.

Espresse in quella lettera ci sono le ragioni di quella memoria e il  proposito di mutar vita giacchè di essa quell’atroce esperienza ne ha rivelato tutta l’inutilità.

Quelle ragioni: “Questa memoria non suoni invito istigativo a far pendere i piatti della bilancia della Giustizia sacra da una parte o dall’altra, ma sia intesa quale mezzo conoscitivo indipendente, obiettivo e franco, di fatti commessi da taluni che hanno la disgrazia di non possedere ( oltre a tutto il resto ) il mezzo del narrare, a voce o con la penna, com’io che scrivo, o voi, Interdonato, o gli accusatori o contro parte o giudici d’essi imputati abbiamo il privilegio. E cos’è stata la storia sin qui, egregio amico? Una scrittura continua di privilegiati”. ( 5 )

Perchè, al fondo di quella incapacità di narrare dei diseredati, c’è anche un modo di intendere le parole, le stesse parole, in modo differente rispetto ai cosidetti liberali.

Scrive pertanto il Pirajno:E dunque noi diciamo Rivoluzione, diciamo Libertà, Egualità, Democrazia…E gli altri, che mai hanno raggiunto i dritti più sacri e elementari, la terra e il pane, la salute e l’amore, la pace, la gioia e l’istruzione, questi dico, e sono la più parte, perché devono intendere quelle parole a modo nostro?” ( 6 )

Ad Alcara Li Fusi, e dovunque si verificarono rivolte sanguinose, i diseredati si mossero per la terra e per il pane perché questo era per loro la libertà ma, ed ecco l’illuminista, anche l’istruzione è un diritto  elementare; con essa tutti potranno riempire le parole con le stesse cose.

Ancora il Pirajno : “Dopo i fatti di Alcara ho detto addio alla mia pazza idea dello studio sopra la generale malacologia terrestre e fluviatile di Sicilia: ho dato fuoco a carte, a preziosi libri e rari, fatto saltare il microscopio, schiacciato gli esemplari di ogni famiglia e genere…Al diavolo, al diavolo!” ( 7 )

Dopo quei fatti ha abbandonato la pratica di una scienza astratta e non rivolta all’uomo; dopo quei fatti scriverà che “l’unica azione degna che mi accinga a fare è quella di lasciare la mia casa, i miei beni e destinarli a scuola, insegnamento pei figli dei popolani di questa mia città di Cefalù. Si che, com’io spero, la loro storia, la storia, la scriveran da sé. …I libri e la ricolta d’antichità saranno una pubblica biblioteca e un museo…”. ( 8 )

C’è , nel descrivere quella sorta di conversione di Enrico Pirajno di Mandralisca, una profonda riflessione sul ruolo dell’intellettuale ma anche l’espressione dell’utopia della liberazione dai bisogni, materiali e intellettuali, progressiva quella e progressivi i bisogni, in una società il cui scopo è quello di migliorare le condizioni di vita di chi la compone.

Note

1-Giuseppe Cesare Abba, Da Quarto al Volturno. Noterelle di uno dei Mille, p. 30
www.liberliber.it/a/abba/ da quarto al volturno/pdf/ da qua_p.pdf
2-Ibidem
3-ivi, p. 62
4-Leonardo Sciascia, Il quarantotto, in Gli zii di Sicilia, Einaudi, Torino 1975, pp. 132-133
5-Vincenzo Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, Mondadori, Milano 1997, p. 118
6-Ivi, p. 120
7-Ivi, p. 121
8-Ivi, p. 123


Marzo 2013 Biagio Napoli


 

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