La vera identità siciliana è nata con la lingua italiana- di Franco Lo Piparo

La vera identità siciliana è nata con la lingua italiana- di Franco Lo Piparo

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Ho letto il disegno di legge regionale su «L'insegnamento della storia, della letteratura e della lingua siciliana nelle scuole». Stando alle cronache politiche, l'Assemblea unanime nei prossimi giorni l'approverà.

È un'inutile e confusa legge che si spera faccia la fine di quella già approvata dall'Assemblea regionale il 6 maggio 1981 («Provvedimenti intesi a favorire lo studio del dialetto siciliano e delle lingue di minoranze etniche»): dopo una gran quantità di interventi genericamente retorici sui giornali entrò nel dimenticatoio collettivo. Ci auguriamo che la storia si ripeta.

La legge nasce con due macroscopici difetti: (1) si propone di emulare la Lega su un terreno sbagliato; (2) poggia sull'ignoranza della natura di ciò che si vuole tutelare.

I progetti leghisti di insegnamento scolastico degli idiomi locali hanno una lucida finalità politica. Mirano a indebolire e appannare la percezione collettiva di una Italia unita e a estromettere dalle scuole dell'Italia settentrionale i numerosi insegnanti meridionali che per forza di cose non hanno familiarità nativa con le parlate locali.

Dal punto di vista leghista è una mossa politicamente intelligente: col pretesto della lingua si rafforza la separazione del "miserabile" Sud da quella parte d'Italia economicamente forte e ben appoggiata dal governo che simbolicamente Bossi chiama Padania.

Farebbero bene i nostri politici (non faccio distinzione di schieramento) che si occupano di lingua a meditare su una tesi formulata e dimostrata da un grande linguista italiano che si chiama Antonio Gramsci. «Ogni volta che affiora, in un modo o in un altro, la quistione della lingua, significa che si sta imponendo una serie di altri problemi: la formazione e l'allargamento della classe dirigente, la necessità di stabilire rapporti più intimi e sicuri tra i gruppi dirigenti e la massa popolare-nazionale, cioè di riorganizzare l'egemonia culturale».

Non so se i leader leghisti abbiano mai letto Gramsci, si comportano comunque in questa materia come se l'avessero letto e capito. Quale è invece il progetto politico sotteso dalla legge siciliana? Temo che i proponenti non lo sappiano.

La striminzita relazione che accompagna la proposta è un insieme di vacuità tanto generiche che è pure difficile discuterle. L'unica cosa che si capisce è che l'obiettivo che ci si prefigge è la «valorizzazione dell'identità siciliana».

I deputati che , ahinoi, ci rappresentano non conoscono la storia e quindi non sanno che l'identità siciliana, se proprio si deve usare questa abusata formula, nasce ed è linguisticamente italiana.

Se avessero fatto una buona scuola o avessero letto qualche libro in più saprebbero che fu Dante per primo a spiegarne i motivi.

Naturalmente bisogna intendersi su cosa bisogna intendere per «italianità». Per dirla con le parole di Pirandello, alla italianità non va dato il significato di «astratta verbosità di lingua letteraria e retorica».

La lingua italiana è un insieme, policentrico ma anche ordinato, di varietà regionali e culturali.

Mi spiego con esempi noti a tutti: appartengono alla lingua italiana non solo I Malavoglia di Verga ma anche le poesie di Meli e Ignazio Buttitta.

Sono anche monumenti alla lingua italiana le lettere otto-novecentesche ai familiari degli emigrati siciliani semianalfabeti, le didascalie, sgrammaticate ma pur sempre scritte in italiano, che accompagnavano gli ex-voto e i masciddara dei carretti.

Parlano in italiano popolare aulico gli eroi positivi dell'opera dei pupi.

Parlano invece un siciliano molto dialetttale i «saraceni», ossia i personaggi negativi.

Un puparo dell'Ottocento nel canovaccio di un'opera annota: «Le pellirosse, essendo selvaggi, parlano il dilatetto». E si potrebbe continuare.

Ma allora quale identità i nostri legislatori vogliono tutelare? Un separatista di grande caratura come Andrea Finocchiaro Aprile proponeva una politica linguistica esattamente opposta a quella della lega padana.

In un comizio del 6 agosto 1944 si riferiva alla Sicilia in questi termini: «la Sicilia è il solo paese di lingua italiana rimasto saldamente in piedi, deve provvedere a se stessa e non potrà fare ciò che staccandosi dall'Italia per vivere da sé».

La separazione politica della Sicilia dall'Italia era quindi rivendicata insieme all'italianità della sua identità linguistica. Non si tratta né di una contraddizione né di un caso isolato. È solo un capitolo di una storia complessa in parte già scritta.

Seguendo l'indicazione di Gramsci, poniamoci la domanda veramente cruciale: quale politica linguistica per una Sicilia che voglia stare a testa alta e in maniera competitiva nel complesso mondo contemporaneo?

La conoscenza del proprio passato è fuori discussione, a patto che non si dimentichi che la storia siciliana non è una storia isolazionista o isolana.

Se la Sicilia non è mai stata politicamente e culturalmente un'isola, allora la sua identità va difesa con politiche linguistiche non autoreferenziali.

Le poche risorse che abbiamo dovremmo usarle per incentivare l'apprendimento e l'uso, oltre che dell'inglese, delle lingue dei futuri padroni del mondo, arabi e cinesi. Così si difende l'autonomia della Sicilia e la sua identità.

Il passato non è un luogo in cui rifugiarsi ma una fiaccola con cui illuminare il presente e viaggiare nel futuro. Perché sia questo, il passato bisogna però conoscerlo e la conoscenza non consente scorciatoie.

Franco Lo Piparo professore ordinario di Filosofia del linguaggio Università di Palermo

Articolo pubblicato sul quotidiano "La Repubblica" ed. di Palermo

 

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