Cronaca

Dieci anni è stata la richiesta dell'accusa per associazione mafiosa sostenuta dai p.m. Francesca Mazzocco e Marzia Sabella nei confronti di Antonino Di Bella, richiesta pienamente accolta dal GUP Daniela Cardamone; la pena  è comprensiva dello 'sconto' di un terzo per avere l'imputato richiesto e ottenuto il rito abbreviato.

Ne da notizia il 'Giornale di Sicilia' di oggi in un artioloa firma di Riccardo Arena

Di Bella, semplice sorvegliante, nei fatti era stato per anni il vero dominus del Consorzio, coltivando però anche inetressi personali e familiari, tra cui l'uso di un mezzo, un Bobcat, intestato ad un prestanome, che durante le periodiche emergenze rifiuti, verosimilmente 'pilotate',  veniva requisito a suon di quattrini  'a palicedda avi a travagghiari' si dice in una delle intercettazioni riportate dai Carabinieri.

'A palicedda' con la scritta Comune di Bagheria  malamente cancellata è stata ritrovata presso un garage del padre di Di Bella.

E' stato messo altresì alla luce durante le indagini il ruolo di braccio destro che il Di Bella svolgeva a servizio del capofamiglia di Bagheria Pino Scaduto, arrestato nel'operazione 'Perseo' del dicembre del 2008.

altComincia a squarciarsi il velo di illegalità piccole e grandi e di complicità all'interno del COINRES, il consorzio dei rifiuti dell'ATO Palermo 4, oggi in liquidazione, l'unico in Siciliaa d avere uno status di ente pubblico, che aveva richiamato l'attenzione e l'allarme della Commissione nazionale antimafia durante la grande inchiesta sul tema della raccolta e dello smaltimento dei rifiuti in Sicilia.

Non solo mafia però al Coinres: abusi, falsi e truffe sulle presenze che avevano portato nel marzo dello scorso anno all'arresto anche di Diego Lo Paro, dipendente comunale e responsabile amministrativo che si occupava del Coinres.

La prova delle illegalità che secondo le accuse, andavano dall'assenteismo programmato all'uso improprio del personale, dalla manomissione dei fogli di presenza all'abuso nell'assegnazione di carburante anche a soggetti che non ne avevano diritto, sono state raccolte nelle centinaia di intercettazioni e filmati che fanno parte del fascicolo di indagine confezionato dai Carabinieri di Bagheria.

Questa parte dell'inchiesta che vede tra gli imputati una decina di dipendenti del Coinres, Antonino Adamo, Antonino Di Bella, Oofrio Galioto, Carmelo Guida, Antonino Nocera, Giovan Battista Sardina, Giuseppe Urso, Giovanni Schimmenti e Filippo Lombardo è confluita in un procedimento che inizierà con il rito ordinario mercoledì prossimo.

Tra le parti civili lo stesso Consorzio e il Centro Studi 'Pio La Torre'

L'avv. Antonio Di Lorenzo, difensore di Di Bella ha preannunciato appello contro la condanna.

nella foto interna da sx  Antonino Di Bella  e  Diego Lo Paro

Paolo Audia, autotrasportatore bagherese era stato arrestato il 1 marzo del 2011 nell'ambito dell'operazione 'Lampara' dove vennero arrestati i responsabili di un maxitraffico di cocaina tra Spagna, Campania e Sicilia: assieme a lui venne arrestato Giò Giò, soprannome di Giuseppe Lo Coco, commerciante flavese di pesce.

Nelle intercettazioni si parlava appunto di 'cassette di pesce' , espressione che per gli inquirenti mirava a dissimulare i reali traffici.

Paolo Audia, che gestiva una piccola azienda di trasporti nel frattempo fallita in conseguenza anche del suo stato di detenzione, si era sempre professato innocente, tant'è che la prima sezione del Tribunale gli aveva dato credito assolvendolo nel novembre del 2012, ma l'uomo aveva comunque trascorso  12 giorni in carcere e 248 giorni ai domiciliari.

Adesso, assitito dall'avv. Gabriele Butera ha ottenuto dalla Corte di Appello un risarcimento di 40.000 euro per ingiusta detenzione, in quanto secondo la Corte, c'erano già tutti gli elementi per accertare ancora prima della sentenza l' assoluta estraneità di Audia  ai reati che gli venivano contestati. 

La notizia che la Conad avrebbe pagato il pizzo, al tempo aveva suscitato parecchio scalpore per la notorietà del supermercato Conad, i cui punti vendita Carmelo Lucchese deteneva a Bagheria, a Belmonte oltre che a Palermo: le dimissioni da amministratore erano state necessarie per evitare il ritiro del marchio minacciato dalla stessa Conad; ma al processo per falsa testimonianza aggravato dall'avere agevolato cosa nostra, il G.U.P. Sergio Ziino, ha assolto  l'imputato, difeso dall'avv. Rosanna Vella,  che aveva scelto il rito abbreviato,  con la formula della insussistenza del reato

La motivazione è che non esistono riscontri alle accuse formulate dal pentito Onofrio Prestigiacomo, uno degli arrestati bagheresi nell'operazione Perseo del 16 dicembre del 2008, condannato a sette anni in primo grado, diventato successivamente collaboratore di giustizia, ed oggi libero.

Il Lucchese aveva deposto in aula come testimone durante il procedimento di 1° grado degli imputati dell'operazione Perseo negando di aver pagato il pizzo a cosa nostra bagherese.

I giudici poco convinti della testimonianza, avevano chiesto alla Procura di valutare la deposizione del testimone Lucchese, procura che a sua volta aveva inviato gli atti alla prima sezione della Corte di appello; in questo frattempo erano intervenuta la collaborazione del Prestigiacomo che aveva dichiarato che il titolare del supermercato oltre ad essere stato costretto ad assumere parenti di Sergio Flamia, aveva  dovuto affidare la ristrutturazione di un immobile ad una ditta vicina a cosa nostra e aveva  pagato grosse somme dell'ordine delle centinaia di migliaia di euro al capofamiglia di Bagheria del tempo Pino Scaduto che le aveva divise con Sandro Capizzi, mafioso di Altofonte.

Carmelo Lucchese in Tribunale di fronte alle contestazioni ha ammesso solo di aver pagato una 'mediazione lecita' di 25.000 euro, e di non aver avuto niente a che fare con mafiosi, nè di conoscere nè di aver partecipato ad incontri con esponenti di cosa nostra.

L'avvocato Vella ha fatto emergere nel corso della sua arringa difensiva la mancanza totale di riscontri alle affermazioni, pur circostanziate, del Prestigiacomo, e l'imputato è stato pertanto assolto.

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  avv. Rosanna Vella 

 

 

foto tratta dal Giornale di Sicilia

Dalle prime ore del mattino, in Palermo e Fermo, i Carabinieri del Comando Provinciale di Palermo hanno eseguito una misura cautelare, emessa dal GIP del Tribunale di Palermo su richiesta della locale Procura della Repubblica, nei confronti di 12 persone (di cui 1 in carcere, 3 agli arresti domiciliari e 8 sottoposizioni ad obblighi di presentazione alla P.G.), ritenute responsabili, a vario titolo, di associazione a delinquere finalizzata a commettere una pluralità indeterminata di delitti di truffa aggravata, falso, corruzione e riciclaggio, sostituzione di persona, ricettazione, accesso abusivo a sistema telematico. Contestualmente i militari hanno eseguito un decreto di sequestro preventivo, per un valore equivalente di 300.000 €, nei confronti di 5 indagati.

L’esecuzione dei provvedimenti conclude una complessa attività investigativa sviluppata dai Carabinieri della Sezione di Polizia Giudiziaria della Procura, coordinati dal Proc. Agg. Dr. Leonardo AGUECI e dai Sost. Proc. Dr. Maurizio AGNELLO e Luca BATTINIERI.

Le indagini, avviate nel dicembre 2012, nascono dalle denunce presentate dall’INPS, a seguito dell’individuazione di un’anomalia nella corresponsione dei Trattamenti di Fine Servizio (TFS), cd “Buonuscita”, e in particolare nella “riemissione” della stessa in favore di un pensionato. Al riguardo, va precisato che i reati erano stati commessi in un momento di criticità per l’istituto previdenziale, ovvero nel settembre del 2012 in occasione della fusione dei due più importanti istituti previdenziali nazionali: l’INPS e l’INPDAP.

IL MODUS OPERANDI

Il modus operandi dell’associazione criminale si basava sull’apporto determinante di un dipendente INPDAP, VIVOLI Vincenzo, funzionario di livello C2, il quale, attingendo alle informazioni contenute nel database dell’istituto, forniva agli altri associati i nominativi su cui poter effettuare le operazioni illecite.
Il meccanismo può essere così sintetizzato:
1. presupposto operativo era che alcune emissioni del TFS non andassero a buon fine perché o era sbagliato il codice Iban indicato dal pensionato o la banca destinataria aveva cambiato denominazione (e quindi Iban);
2. in tali circostanze, le somme che dovevano essere erogate, per l’impossibilità di accredito, venivano accantonate in un deposito (c.d. “Sospeso”) della Banca cassiera dell’Istituto previdenziale;
3. la banca cassiera dell’ente periodicamente comunicava all’INPS la lista relativa a tale “sospeso”, contenente le generalità del legittimo percettore che, ricontattato, veniva invitato a compilare un nuovo modello (cd. di “Riemissione”) indicando – in calce - le nuove coordinate Iban;
4. VIVOLI Vincenzo, naturale destinatario (attraverso la Ragioneria) della comunicazione relativa alla situazione del deposito “sospeso”, in qualità di addetto alla trattazione di tale tipologia di pratiche, istruiva le c.d. “riemissioni”. Ottenuta la lista (e le modulistiche compilate dai pensionati), anziché provvedere a lavorarla secondo la prassi operativa dell’Istituto, il Vivoli selezionava le richieste con gli importi più elevati e le segnalava agli altri sodali, in particolare a ALLOTTA Luigi, ALLOTTA Gabriele e SPECA Cesare (tutti destinatari, come Vivoli, di o.c.c.);
5. quest’ultimi, utilizzando procedure di homebanking, aprivano un conto corrente intestato alla persona (il pensionato) – a sua insaputa - che avrebbe dovuto legittimamente percepire il TfS;
6. i tre fornivano un codice IBAN al VIVOLI il quale, dopo aver distrutto l’originale della domanda di riemissione, compilava un ordine di pagamento artefatto recante il codice Iban indicatogli dagli altri associati;
7. una volta giunti sul conto corrente appositamente aperto, i fondi venivano immediatamente “carambolati” su altri conti correnti di persone compiacenti (pensionati o parenti degli indagati) che (dopo aver prelevato il denaro contante) ne trattenevano una minima percentuale per sé stessi a “retribuzione” della propria prestazione/disponibilità, restituendo la parte più ingente dell’illecito provento all’organizzazione.
Da questo meccanismo di “carambolazione” di conto in conto prendeva nome l’operazione.
In tal modo e alterando 5 pratiche sono stati sottratti 273.000,00 .
Dagli accertamenti esperiti con la piena collaborazione dell’Ente previdenziale è emerso che gli indagati stavano trattando ulteriore 11 pratiche di riemissione, per un importo complessivo di 560.000 euro (di cui 140.000 circa accreditati, ma non potuti riscuotere ed altri € 420.000 relative a quelle in fase di lavorazione).  

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